“Reperto numero 8, membro virile in bronzo”. L’altra settimana è scomparso a Reggio Calabria Giuseppe “Peppino” Mavilla, personaggio popolarissimo in città: pioniere dello sci a Gambarie, skipper e sub: noto per aver consegnato alla Soprintendenza “La testa del filosofo”, un reperto che compete in bellezza con i Bronzi, come loro esposto al pianterreno del Museo firmato dall’architetto Marcello Piacentini.
La notizia è stata liquidata con due colonnine in cronaca, senza nemmeno una foto: che io abbia letto, solo il professor Pasquale Amato – che non a caso è uno storico – ha ricordato Mavilla. Che aveva 83 anni, una salute malferma («troppe immersioni, ma quanto mi sono divertito!») e una mente lucidissima: viveva con la moglie In un grande condominio di Gallico, non troppo vicino al suo mare.
Un reggino ammalato di dietrologia (categoria molto diffusa) potrebbe dire che Mavilla se n’è andato portandosi dietro qualche segreto. Per quanto abbia potuto constatare io – nel corso del lavoro preparatorio per il film “Semidei” insieme a Massimo Razzi – se n’è andato piuttosto arrabbiato.
E allora bisogna tornare a quegli anni, certo movimentati: “La Testa del Filosofo” viene recuperata nell’ottobre 1969, la scoperta del Bronzi è del 16 agosto del 1972. In tutta Italia si susseguono scoperte e predazioni. Forse migliori attrezzature sub, un mercato miliardario sull’asse Svizzera-Stati Uniti, una certa tolleranza delle autorità costituite, la pervasiva presenza delle mafie. In più, ed è incredibile rileggere certi pezzi, una mitizzazione di personaggi ambigui: come i “tombaroli”, per esempio. Poi, per fortuna, arrivano leggi più stringenti e maggiori controlli sul territorio.
Il tesoro che non sappiamo di avere
Basta scorrere con il dito una mappa della Jonica calabra, da Sibari all’antica Rhegion, per poi risalire verso Rosarno e Vibo, per immaginare quanti tesori abbiano lasciato a terra e sotto il mare i nostri antenati greci, i fondatori, e le navi romane che andavano sotto costa in Calabria, prima o dopo la traversata. Una fissazione di funzionari come Alessandra Ghelli, responsabile dell’archeologia subacquea a Reggio e Vibo, che dovrebbe essere anche la nostra.
Ma oltre cinquant’anni fa come oggi, la frase “non ci sono soldi” ferma o rallenta ricerche che potrebbero portare a nuove, clamorose scoperte. Come fu quella del relitto di Porticello, firmata dal sub 29enne Peppino Mavilla: che consegnò alcuni giorni dopo i reperti al dottor Giuseppe Foti. Il Soprintendente, un uomo fortunato: tre anni dopo controfirmò anche la denuncia del sub romano Stefano Mariottini («due statue in bronzo nella sabbia a 7-8 metri di profondità, in località Porto Forticchio, Riace Marina»).
Per quel recupero, Mavilla ebbe un premio di 52 milioni di lire, Mariottini prese più del doppio per i Bronzi: sappiamo oggi che si tratta di opere di valore inestimabile, vanto e magnete della città e del Museo. Mavilla continuò poi a girare per il Mediterraneo con il suo yacht per crociere e immersioni. Collaborò con ricerche archeologiche per poi finire negli States. Mariottini è rimasto testimonial della Soprintendenza e ha proseguito negli anni il suo impegno in ricerca e difesa dei Beni Culturali.
Una denuncia che non arriva subito
Mavilla non registra subito la scoperta del relitto di Porticello. A leggere i documenti, qualche contraddizione sulle date resta. È un sub esperto e irruente, ride spesso della sua incoscienza. «Una volta mi diedero per scomparso, ma ero stato solo risucchiato dalla corrente durante la decompressione verso il centro dello Stretto, dentro i gorghi cantati da Omero».
Racconta nel libro “L’immensa onda” la sua pesca in un’area funestata dalle bombe dei cacciatori di frodo: «Vidi due cernie partire dentro una piccola caverna e scattai in avanti con lampada e arpione, quando notai che stavo passando sopra uno strano biancore di scogli. Ma non erano pietre, avevano dei manici, erano delle anfore! Mi sollevai di qualche metro, le anfore erano tante, e quello era un relitto, il relitto di Porticello. Da quel momento non fui più padrone della mia vita».
Ancorata fra Villa e Scilla, la nave greca era andata a picco intorno al 400 a.C. per una tempesta. Mavilla continua le sue ricerche, affitta un piccolo deposito, teme quello che lui chiama i “bombaroli”, pescatori e predatori che lo hanno visto all’opera.
A 38 metri trova una statua di Poseidone «fiero e sorridente», è a rischio embolia e risale, spera di poterla recuperare il giorno dopo, ma il giorno dopo la statua non c’è più!
«Al tramonto, dopo due ore di attesa sulla riva, la lancetta del decompressimetro mi indicò un certo spazio di sicurezza, e tornai giù con rabbia. Scavai come un forsennato nella parte dove affioravano pezzi di statua, e poi finalmente la testa, che mi sembrò molto pesante».
L’Enciclopedia Treccani Arte definisce così Il Filosofo: «Le sembianze sono genericamente quelle di un sapiente e intellettuale (Ardovino), richiamando i ritratti di Sofocle (Freí) o suggerendo, sulla base di un’interessante lettura stilistica, il possibile ritratto «di ricostruzione» del poeta Esiodo».
Mavilla porta a casa tutto, la madre comincia a pulire la testa da una massa di fango, e li viene fuori il membro. Risate miste a una certa paura. Il padre a quel punto gli ordina di portare tutto al Museo, ma Mavilla disobbedisce: la mattina dopo torna a Porticello, recupera altri pezzi, compreso il piede del Filosofo. Tutti i reperti arrivano infine sul tavolo del Soprintendente, come da denuncia che pubblichiamo (foto in basso).
Ma nel frattempo, il relitto non viene presidiato, e questo è il grande rimpianto di Mavilla. Mani ignote portano via di tutto, compresa un’altra Testa, che riappare vent’anni dopo nel Museo di Basilea e viene poi recuperata dal Ministero italiano nel 1993: per la prima volta la Svizzera restituisce un’opera d’arte. Anche lui barbuto e in bronzo, è stato a lungo chiamato con il nome della città svizzera, ora ha preso il nome di Testa di Porticello (per cancellare lo scandalo) ed ha avuto il privilegio di essere esposto anche altrove. Chi lo recuperò? Mavilla ha sempre attaccato la superficialità di forze dell’ordine e Soprintendenza che non difesero il relitto dai predoni. Ha fatto nomi e cognomi. Una parte della città gli ha restituito il pettegolezzo: si è fatto ricco con il relitto.
Dove sono finiti gli altri reperti?
E qui arriviamo alla sua rabbia. «A un certo punto me ne sono andato a New York per fare i lavori più umili». In tribunale ha sempre avuto ragione lui. Tornato a casa e riconciliatosi mentalmente con la città, ha ripetutamente chiesto al Museo dove fossero finiti gli altri reperti recuperati insieme alla Testa, prima di tutto il membro, presentando denuncia ai carabinieri. Una gentile funzionaria ha risposto con grande ritardo dicendo più o meno «è tutto a Piazza De Nava, tutto sotto controllo». Mavilla chiedeva che il Museo ricordasse che quel meraviglioso volto era stato da lui ritrovato e donato a Reggio. Voleva il suo nome da qualche parte, e tutto sommato aveva ragione.
Non a caso, sul biglietto da visita, aveva scritto: “Giuseppe Mavilla, Scopritore della “Testa del Filosofo”. Chissà se ora Reggio lo salverà dall’oblio, piccolo pezzo della grande storia della città.