Pentiti, i rampolli dei clan vibonesi si ribellano

Cresciuti a pane e 'ndrangheta, Emanuele Mancuso e Walter Loielo chiudono con la famiglia di origine rompendo il patto di sangue e criminale

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Da delfini a pentiti. Quando si parla di casato si evoca qualcosa di aristocratico e di antico. Di nobiltà ce n’è in verità molto poca nei racconti che delle dinastie mafiose del Vibonese fanno i loro stessi rampolli. Sono cresciuti a pane e ‘ndrangheta ma, adesso, hanno cominciato a ribellarsi al loro stesso sangue e a quello che hanno visto scorrere fin da bambini tra la costa degli Dei e le montagne delle Serre. Sono storie diverse ma emblematiche quelle di Emanuele Mancuso e Walter Loielo. Viaggiano su binari distinti e paralleli ma, in determinati momenti, si avvicinano pericolosamente.

Un tipo alternativo

Nato il giorno di San Valentino di 33 anni fa, Emanuele secondo sua padre era come un surici. «Dove passavo io facevo danni» – dice. E il padre, che ha un nome diffuso in famiglia, Pantaleone, è conosciuto come “l’ingegnere” e per essere stato protagonista di un arresto da film. Alla fine di agosto del 2014 lo catturò la gendarmeria argentina in una città alla frontiera con il Brasile, Puerto Iguazù. Cercava di passare il confine a bordo di un bus turistico con un documento argentino falso intestato a tale Luca de Bortolo e con 100mila euro addosso.

All’epoca, per dire che aria tirasse in famiglia, era accusato del duplice tentato omicidio di sua zia Romana e del figlio, che era avvenuto 6 anni prima al culmine di dissidi sfociati nel sangue tra i vari rami della famiglia. Il danno più grosso, osserva sornione lo stesso Emanuele in collegamento con l’aula bunker di Rinascita-Scott, lo ha fatto collaborando con la giustizia.

I parenti e la ex compagna vogliono indurlo a ritrattare

Secondo la stessa Dda di Catanzaro i suoi parenti, e anche l’ex compagna da cui ha avuto una bimba, volevano indurlo a ritrattare in ogni modo: la promessa di un ristorante tutto suo in Spagna, pressioni di ogni tipo facendo leva anche sulla figlia neonata, le minacce urlate dai vicini di cella al carcere di Siano. Volevano farlo passare per pazzo. In effetti lo conoscevano bene, perché Emanuele tanto “normale” non lo è mai stato. Un «tipo alternativo», si è definito lui stesso, perché non seguiva il protocollo di famiglia. Faceva furti e rapine mentre i suoi gli dicevano che «fare quelle cose fosse una vergogna perché un Mancuso non doveva abbassarsi a tanto».

Molto ferrato nelle nuove tecnologie, tanto da essere spesso addetto alle bonifiche per gli uomini del clan, lo era altrettanto nella coltivazione di marijuana su scala industriale. Ne piantava tanta ma sostiene di non fumarla perché gli fa abbassare la pressione. La cocaina invece sì, ammette di averla usata spesso. Ma a uno degli avvocati difensori che lo controesaminava ha risposto irritato di «non aver mai sostenuto alcuna visita psichiatrica».

Un cadavere nel bosco

Walter lo chiamano “batteru” ed è ancora più giovane. Classe 1995, ha anche lui un padre ingombrante. Anzi, aveva: si chiamava Antonino ed è sparito nel nulla un giorno di aprile del 2017. Né suo figlio, che al contrario di Emanuele non è il primo pentito della sua famiglia, né gli altri familiari all’epoca ne denunciarono la scomparsa. Oggi invece Walter è indagato per avere occultato il cadavere del genitore. Sarebbe stato lui stesso ad indicare la carcassa di una Cinquecento rossa seminascosta nei boschi di Gerocarne vicino a cui avevano seppellito il padre. Avevano, sì, lui e suo fratello Ivan, che è quello accusato di averlo ucciso.

Il movente è ancora un mistero: non è di ‘ndrangheta, hanno detto gli inquirenti quando hanno scoperto il corpo a novembre del 2020, il contesto evidentemente sì. Perché è quello della famiglia Loielo, una storia criminale lunga decenni che da banda di rapinatori alla fine degli anni ’70 li vede poi diventare l’ala armata della “società” di Ariola, frazione-epicentro nelle Preserre vibonesi di una faida ventennale con il clan Emanuele, che li ha scalzati dal dominio militare decapitando la loro cosca con un efferato duplice omicidio nel 2002. All’epoca caddero, per mano del boss emergente Bruno Emanuele, Pino e Vincenzo Loielo, di cui il padre di Walter era primo cugino.

Anni dopo i rampolli dei Loielo avrebbero tentato di rialzare la testa per vendicare i loro morti. A soffiare sul loro rancore sarebbe stato un altro Pantaleone Mancuso, “Scarpuni”, tentando da dietro le quinte di ridimensionare gli odiati Emanuele. È finita con una scia di morti e altrettanti tentati omicidi. In uno di questi, ad ottobre del 2015, rimase ferito proprio Antonino mentre era a bordo della sua vecchia Panda. Con lui c’era la compagna incinta di sei mesi e un altro figlio, Alex. Pochi giorni dopo tentarono di ammazzare anche lo stesso Walter, che era assieme a due cugini e che era stato già in precedenza bersaglio di un ulteriore attentato. Sangue, vendette, famiglie non esattamente da Mulino Bianco, ma a un certo punto arriva qualcuno che la catena dell’odio la spezza.

Il coraggio di sfidare il “supremo”

Emanuele è iperattivo, spregiudicato, ha mostrato un’indole violenta ma anche un’intelligenza vivace. Una cosa che pochi sanno di lui, per esempio, è che era in grado di scriversi da solo le istanze da presentare ai giudici in relazione a misure di sorveglianza a cui era sottoposto. Raccontano che in alcuni casi le firmasse lui stesso, a nome dei suoi avvocati, e che qualche volta il Tribunale le abbia anche accolte. Non sorprende, dunque, il piglio con cui parla durante i processi. Il coraggio non gli difetta: è stato capace di stringere un’amicizia fraterna con Peppe Soriano – nipote del boss Leone, «uno psicopatico criminale» – a cui offriva soldi e assistenza legale proprio tramite lo zio, incurante che questi fosse parecchio inviso al “supremo” Luigi Mancuso, prozio di Emanuele che «con una parola riesce ad entrare nel tuo cervello, non usa metodi brutali ma ha un carisma inaudito».

Cinquemila euro per ammazzare un vecchietto

Walter è più introverso, quasi impacciato. Terza media, condizioni familiari «difficili» e qualche saltuario lavoro agricolo alle spalle. Al suo esordio in un processo, lo scorso 23 giugno, si è un po’ impappinato parlando davanti alla Corte d’Assise di Catanzaro. È stato chiamato a rendere in aula le sue prime dichiarazioni da pentito nel procedimento sull’autobomba di Limbadi che il 9 aprile 2018 ha ucciso il biologo 42enne Matteo Vinci e ferito il padre Francesco. Un crimine che ha fatto rumore e che forse qualcuno della galassia Mancuso ha ordito senza farlo sapere ai boss che contano.

Il 26enne ha raccontato che due indagati accusati di essere gli esecutori materiali – per cui però il Riesame ha annullato i relativi capi d’imputazione – tra la fine del 2017 e l’inizio del 2018 gli avrebbero portato una “’mbasciata” da parte di «quelli di là sotto», locuzione con cui nel Vibonese sono inequivocabilmente identificati i Mancuso. Gli avrebbero proposto di «uccidere un vecchietto in campagna per 5mila euro». Lui, però, si sarebbe rifiutato senza nemmeno chiedere quale fosse l’identità della potenziale vittima.

Walter ne avrebbe poi parlato con Giuseppe Mancuso, fratello di Emanuele che avrebbe aiutato in un periodo di latitanza. E quello gli avrebbe risposto che era stato un cognato degli imputati a dare l’ordine dell’omicidio senza farlo sapere ai parenti. Walter è però inciampato nel controesame. Ha detto rispondendo a un avvocato di non aver capito a quale cognato Mancuso si riferisse, ammettendo di essersi «un po’ confuso».

Gli incroci pericolosi e la storia che cambia

Così si sono in qualche modo incrociate le storie di questi due rampolli che pur essendo giovani ne hanno viste tante. Uno viene da un contesto rurale e, oltre ad aver seppellito il suo stesso padre, si sarebbe trovato in prima persona nel mezzo di una faida che ha visto morire ammazzati anche ragazzi che non c’entravano nulla. Come Filippo Ceravolo, che aveva appena due anni più di lui ed è stato raggiunto dai pallettoni del suo clan, appena 19enne, solo perché aveva chiesto un passaggio al vero obiettivo dei killer, un ragazzo legato agli Emanuele che è rimasto illeso.

L’altro è un predestinato, un principino della ‘ndrangheta «di serie A». Non ha paura a bollare addirittura come «carabinieri senza divisa» alcuni dei suoi «zii grandi» accusandoli di aver coltivato per anni amicizie e collusioni tra insospettabili colletti bianchi.
In attesa di capire se e quanto le loro dichiarazioni possano superare il vaglio della credibilità in sede giudiziaria è un fatto, inedito, che i rampolli di due casati di ‘ndrangheta rompano in questo modo il legame di omertà con i loro consanguinei e provino a riscrivere la storia. La loro e quella della loro terra.

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