Con sessanta milioni e duecentomila abitanti censiti, l’Italia è la venticinquesima nazione della Terra per popolazione.
È ciò che emerge dall’analisi condotta a giugno 2022 da Worldometers.info, sito web dedicato alle statistiche sui più svariati argomenti. Il dato è ricavato dall’esame di duecentoquarantasette Stati del pianeta terracqueo.
Il Bel Paese però scende in settantaduesima posizione (dati 2018) se si considera esclusivamente la densità, vale a dire la popolazione per chilometri quadrati. Infatti, l’Italia conta circa duecento abitanti ogni chilometro quadrato di territorio.
Una nazione fatta di paesi
In questa particolare graduatoria, siamo circondati da Paesi esotici quali Gambia, Saint Kitts e Nevis e Isole Vergini Britanniche (rispettivamente alle posizioni settanta, settantuno e settantatré), assai meno estesi, popolati e conosciuti del nostro.
Dal dato sulla densità emerge una realtà che spesso tendiamo a dimenticare: l’Italia non è una nazione fatta di città ma una unità politica e territoriale composta, prima di tutto, da una moltitudine di medi, piccoli e piccolissimi centri di provincia.
Poche le grandi città
Paesi dalle dimensioni contenute se non modeste, scarsamente abitati. È un nitido riflesso del contesto nazionale in cui solo sei città superano i cinquecentomila abitanti. Cioè, in ordine decrescente: Roma, Milano, Napoli, Torino, Palermo, Genova, stando ai dati Istat 2022.
Tutto il resto, sono piccoli paesi, con le loro culture, i loro costumi, le loro lingue regionali scorporate in migliaia di dialetti inintelligibili l’uno con l’altro. È un patrimonio straordinario messo però in crisi dal processo di unità linguistica iniziato, sulla carta, con la nascita dello Stato italiano del 1861 realizzato davvero un secolo dopo con la diffusione poderosa e capillare della televisione in tutto il territorio nazionale.
Dialetti e borghi fantasma
Come i dialetti – la cui dissoluzione in favore dell’omologazione verbale e culturale del Paese ha compromesso irrimediabilmente i particolarismi linguistici -, anche i paesi hanno preso piano piano a scomparire, a perdere le tipicità, in quei rivoluzionari primi decenni del secondo dopoguerra.
Fu l’esito di una serie di processi: innanzitutto le rinnovate ondate di emigrazione, sia all’estero sia verso il Settentrione. Ma non si devono sottovalutare i massicci spostamenti interni verso altri centri e nuovi paesi omonimi in costruzione.
È il fenomeno dei paesi doppi, sosia degli originali abbandonati e destinati a trasformarsi in paesi-presepe. I nuovi centri erano più prossimi al mare e alle moderne infrastrutture: più fertili e salubri, meno soggetti alle catastrofi naturali – eruzioni, smottamenti, alluvioni, terremoti – che per secoli avevano segnato le esistenze di tante comunità.
Questa emorragia demografica, da cui non ci siamo più ripresi, ha generato i cosiddetti paesi fantasma, cioè, per usare l’espressione dell’antropologo Vito Teti, «nonluoghi, non ancora luoghi o non più luoghi».
I “nonluoghi” d’Italia
In tutto il Paese, ci sono tanti posti dimenticati, a seguito, come detto, della volontà di costruire un futuro migliore altrove – che spesso si traduceva in corse vere e proprie al cieco riscatto sociale e all’emulazione, anticamera dell’incultura – oppure cancellati dalla furia della natura, desiderosa di riprendersi i suoi spazi.
Non luogo, non più luogo o non ancora luogo: ecco cos’è oggi Rovaiolo Vecchio, borgo dell’Oltrepò Pavese, abbandonato negli anni sessanta.
I suoi abitanti traversarono l’Avagnone per andare verso quello che credevano il lato giusto della Valle. Stesso discorso per Consonno, l’iperbolico villaggio dei balocchi brianzolo, messo in piedi, sempre nei “miracolosi” anni sessanta, dall’imprenditore Mario Bagno per sostenere l’ideale della società dei consumi dentro cui, allora, gli italiani si lanciavano spensierati e leggiadri come il Tuffatore di Paestum.
Un sogno rapidamente svanito per trasformarsi in un rudere alla mercé dei graffitari. Così è Apice, nel Sannio, il più grande paese fantasma della Penisola, conosciuto anche come la Pompei del ’900. Idem per la sarda Santa Chiara del Tirso, nata con la sua diga negli anni venti del secolo scorso e arresasi nel giro di qualche decennio al tempo e alla vegetazione.
Paesi fantasma in Calabria
Sono luoghi in disfacimento, dimenticati e inghiottiti dalla natura in rivolta. Sono espressione di un’Italia profonda, trapassata o in divenire.
Come, in Calabria, Cavallerizzo di Cerzeto e Roghudi Vecchio, paesi flagellati dalle frane e inseriti tra i venti borghi abbandonati protagonisti di Atlante dei paesi fantasma, il saggio di Riccardo Finelli uscito di recente dai tipi di Sonzogno.
Arricchito delle eleganti illustrazioni di Alessandra Scandella, il volume di Finelli (giornalista e viaggiatore, già autore di altri saggi sulle tracce dell’Italia sconosciuta) ripercorre strade antiche, dimenticate, cancellate dalle cartine e dalla memoria.
Scivola per gli Appennini e giunge nella Calabria interna, a Roghudi, paese di lingua grecanica della provincia di Reggio.
Roghudi e l’alluvione killer
Roghudi è stato angustiato da continue calamità naturali. Quella definitiva è del gennaio 1973: un’alluvione che costrinse i roghudesi a lasciare per sempre il grappolo di case abbarbicate sull’irto ciglione che dà sulla fiumara Amendolea. È uno dei paesi fantasma in Calabria. Qui si mescolano memoria storica e leggenda: le urla dei bambini che nei secoli sono precipitati dallo strapiombo, i canti delle Anarade, maliarde dagli zoccoli di mulo sempre pronte a condurre qualche uomo alla perdizione. Anche le rocce, qui, hanno assunto una conformazione mitica grazie al lavorio delle intemperie: la Rocca tu Draku (Roccia del drago) e le Vastarùcia (Caldaie del latte).
La frana di Cavallerizzo
Più recente l’apocalisse di Cavallerizzo di Cerzeto, centro arbëreshë in provincia di Cosenza. Questa Ghost town è diversa da Roghudi: qui l’abbandono è iniziato soltanto in seguito all’impressionante smottamento del 7 marzo 2005 quando una piccola porzione del centro, costituita per giunta da abitazioni di fresca costruzione, scivolò in un dirupo. L’evento era prevedibile, date le caratteristiche morfologiche del terreno in cui si permise di edificare.
«La bestia aveva vinto» scrive Finelli con allusione a Madre Natura. Ma la “bestia” aveva anche il volto sia di una classe politica che per anni ha intascato i fondi destinati a fronteggiare il dissesto idrogeologico, sia di chi ha disboscato ad libitum la vegetazione attorno a Cavallerizzo. Adesso è uno dei paesi fantasma in Calabria.
E se fosse un suicidio?
Ma qual è il futuro di tali «nonluoghi, non ancora luoghi o non più luoghi? Soprattutto, sta a noi deciderlo? E se invece i luoghi avessero “deciso” di non farcela, di restare nella condizione di sentinelle solitarie di una Italia impresidiata?
Forse il male minore e accettabile, è essere presi “d’assalto” dagli expat o spatriati, gli emigrati o figli e nipoti di emigrati che ritornano al paese una o due settimane per le feste patronali, in moltissimi casi aggiornate e fatte coincidere con le ferie d’agosto di chi quei paesi ha dovuto o voluto lasciare. Paesi che compaiono e scompaiono, come dietro un verecondo velario.
Come sopravvivono i deserti
Ma il paese c’è e non si riduce a quei tre giorni segnati dalla processione per le vie pietrose col santo di cartapesta in spalla, e dalla sagra del peperoncino o del caciocavallo.
Il paese c’è e vive, seppur immobile alla percezione umana. «Anche quando non ci sei resta ad aspettarti», diceva Cesare Pavese: vive per i rovi e le piante che abbracciano le dimore e sfondano pavimenti, solai e tetti. Ed esiste per gli animali che danno un senso a quelle pietre, a quelle mura, a quei terreni incolti, a quelle insegne rugginose.
Il paese chiede di essere vissuto, ma non deturpato e snaturato con musei all’aperto, residenze diffuse per anziani (il nome politicamente corretto degli ospizi), parchi letterari, tali solo sul progetto vergato per mettere le mani sui fondi, e chi più ne ha, ne metta. Il paese non vuole essere prostituito, a fini cinematografici o pubblicitari a questo o quell’altro regista.
Forse dovremmo chiederci: cosa vuole da noi il paese? E, soprattutto, dopo le nefandezze perpetrategli negli ultimi secoli, siamo sicuri che la domanda sia rivolta proprio a noi?