Omicidio Scopelliti: un patto di sangue ancora senza verità

Il 9 agosto del 1991 i killer dei clan uccisero in Calabria il magistrato che avrebbe dovuto rappresentare l'accusa nel Maxiprocesso contro la Cupola istruito da Giovanni Falcone. Arrivati al 2021, autori e mandanti del delitto restano avvolti nel mistero

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Sul suo sangue sarebbe stata edificata la pax mafiosa delle cosche di Reggio Calabria e della sua provincia. A distanza di trent’anni, non c’è ancora una verità univoca. Né sotto il profilo storico, né sotto il profilo giudiziario, sull’omicidio del giudice Antonino Scopelliti. Una delle massime autorità uccise in Calabria a colpi d’arma da fuoco. Esattamente 30 anni fa. Oggi.

Il delitto

Difficile, forse impossibile, non innamorarsi del mare della Costa Viola, litorale tirrenico della provincia di Reggio Calabria. E di quel mare cristallino, che di notte si riempie di lampare, era profondamente innamorato il giudice Antonino Scopelliti. Originario di Campo Calabro, ma da anni operante a Roma, presso la Suprema Corte di Cassazione. Tornava proprio dal mare. Da quel mare. È il pomeriggio del 9 agosto 1991. I sicari lo raggiungono sulla strada che collega la Costa Viola a Campo Calabro. Le pallottole investono l’autovettura. E colpiscono alla testa il magistrato. L’auto non si ferma, sbanda e termina la propria corsa in una scarpata.

Un “omicidio eccellente”. Due estati dopo quello dell’ex presidente delle Ferrovie, Lodovico Ligato. Un omicidio che fa tanto rumore. Sebbene Reggio Calabria e la sua provincia siano interessate da una sanguinosissima guerra tra cosche. E quindi abituate ai morti per le strade. Una guerra che, dopo l’omicidio di Nino Scopelliti, si fermerà. Come per incanto. Una pace immersa nel sangue di un alto magistrato. Sarebbe stato proprio l’omicidio Scopelliti il prezzo con cui le cosche reggine si sarebbero sdebitate rispetto all’interessamento di Cosa Nostra affinché si bloccasse la mattanza per le strade di Reggio Calabria.

Scopelliti, infatti, avrebbe dovuto rappresentare la pubblica accusa nel Maxiprocesso contro la Cupola di Cosa Nostra, giunto al cospetto della Suprema Corte di Cassazione. Proprio quello istruito da Giovanni Falcone. E, quindi, a un passo dalla sentenza definitiva che avrebbe avvalorato il “teorema Buscetta”. Nino Scopelliti era in vacanza nella “sua” Campo Calabro. Ma anche nella canicola d’agosto aveva con sé le carte del Maxiprocesso. Le studiava.

Gli interessi di Cosa Nostra

La ‘ndrangheta avrebbe eseguito l’omicidio, sul proprio territorio, in segno di “ringraziamento” nei confronti della mafia siciliana. Cosa Nostra avrebbe avuto un ruolo determinante per la stipula della pace tra gli schieramenti De Stefano-Tegano-Libri e Condello-Imerti, che a partire dal 1985 si erano dati battaglia, lasciando sull’asfalto centinaia di morti ammazzati.

È questa la tesi più accreditata. Una sentenza che tuttavia nessun Tribunale ha mai scritto in maniera definitiva. L’omicidio del giudice Scopelliti è senza responsabili. Ancora oggi. Dopo 30 anni. Tante sono state, nel tempo, le ipotesi riguardanti i motivi che portarono all’omicidio del magistrato. Alcuni dissero che i Corleonesi avevano tentato di avvicinare il sostituto procuratore generale presso la Cassazione. Volevano chiedesse la nullità del processo, come invocato dalle difese nei motivi d’appello, ma ricevettero un secco “no”. Per altri, invece, l’eliminazione di Scopelliti era utile affinché i tempi di decisione si allungassero eccessivamente. In quel modo sarebbero scaduti i termini di custodia cautelare. Una circostanza che avrebbe riportato in libertà centinaia di boss e affiliati alla mafia siciliana. E verosimilmente in latitanza.

Le indagini e i processi

In primo grado, l’impianto accusatorio regge con la condanna all’ergastolo di personaggi come Totò Riina, Bernardo Brusca, Pippo Calò e Pietro Aglieri. L’accusa però si dissolve in appello. Arrivando poi alla definitiva sentenza assolutoria in Cassazione. Poco o nulla, invece, si è fatto nei confronti degli esponenti della ‘ndrangheta. Sebbene gli inquirenti, negli anni, abbiano potuto contare sulle dichiarazioni di alcuni importanti collaboratori. Come Filippo Barreca e Giacomo Lauro. Lauro parla di un confronto tra due boss di rango, Nino Mammoliti e Pasquale Condello. Mentre Barreca cita esponenti di spicco del clan De Stefano. Le cosche avrebbero tentato di avvicinare il magistrato in vista dell’ultimo grado di giudizio.

Per decidere l’esecuzione del giudice Scopelliti si sarebbero scomodati personaggi di livello criminale immenso, Totò Riina su tutti. Il quale, peraltro, in Calabria era già stato. Ad Africo, ospite del “Tiradritto” Giuseppe Morabito. Riina avrebbe raggiunto in motoscafo il boss Pasquale Condello per affrontare l’argomento dell’eliminazione del magistrato. Rimasti impuniti i presunti mandanti. Invisibili, ectoplasmi, gli esecutori materiali.

Un omicidio così eclatante, di una persona così in vista, non poteva essere deciso senza l’accordo degli esponenti principali della ‘ndrangheta reggina. Tanto le schiere dei Condello, quanto quelle dei De Stefano. Anche in virtù della nuova pace, dovevano essere informate del progetto. E non sarebbe nemmeno da escludere che su quella moto che seguiva l’auto di Scopelliti, vi fossero due killer scelti da entrambi gli schieramenti. Uno in rappresentanza dei condelliani, l’altro inviato dai destefaniani. Sicuramente personaggi spietati. Di comprovata e certa fiducia. E di rara abilità e precisione. I “migliori”.

Nell’aprile del 1993, scattano le manette a carico dei componenti della Cupola palermitana. Arrestati anche i calabresi Antonino, Antonio e Giuseppe Garonfolo, come soggetti inseriti a livello verticistico nell’omonima organizzazione operante a Campo Calabro e collegata ai De Stefano. Arrestato anche Gino Molinetti, uno dei killer più spietati della ‘ndrangheta. Le dichiarazioni dei pentiti mettono in luce il ruolo determinante di Cosa Nostra nella definizione della seconda guerra tra cosche del reggino. E, quindi, il conseguente credito acquisito presso i due schieramenti contrapposti.

Per l’uccisione del giudice furono istruiti e celebrati presso il Tribunale di Reggio Calabria ben due processi. Uno contro Salvatore Riina e sette boss della “Commissione” di Cosa Nostra. E un secondo procedimento contro Bernardo Provenzano ed altri sei boss, tra i quali Filippo Graviano e Nitto Santapaola. Furono tutti condannati in primo grado nel 1996 e nel 1998. E successivamente assolti in Corte d’Appello nel 1998 e nel 2000. Le accuse dei diciassette collaboratori di giustizia (cui si aggiunsero quelle del boss Giovanni Brusca) non bastarono. Vennero giudicate discordanti.

Speranza in fumo

Un primo, vero, atto di pace tra i cartelli che fino al giorno prima si erano rincorsi, individuati e trucidati. Per le strade cittadine. In una vera e propria guerra. Combattuta con pistole, fucili di precisione, autobombe e bazooka. Un omicidio di livello altissimo, di cui solo poche persone avrebbero dovuto sapere. L’uccisione del giudice Scopelliti rappresenta, di fatto, uno spartiacque fondamentale nella storia della società reggina. E della ‘ndrangheta, diventata negli anni una delle più potenti e ricche organizzazioni criminali del mondo. Da quell’omicidio passano le nuove dinamiche criminali che hanno portato Reggio a vivere sotto una cappa. Quella della pax mafiosa.

Lo scenario inquietante, da sempre paventato, e quello di un’alleanza mafia-‘ndrangheta. Una pianificazione che sarebbe avvenuta in un summit mafioso svoltosi nella primavera del 1991 a Trapani. Lì avrebbe partecipato lo stesso Matteo Messina Denaro.

Un paio di anni fa, il collaboratore di giustizia catanese Maurizio Avola farà ritrovare nelle campagne siciliane un fucile. A suo dire, sarebbe stata l’arma utilizzata per il delitto. Da qui la nuova indagine della Dda di Reggio Calabria, che coinvolge ben diciassette tra boss della mafia siciliana e della ‘ndrangheta. Tra gli indagati figura anche il boss latitante Matteo Messina Denaro, primula rossa di Cosa Nostra. Oltre a lui, sono coinvolti altri sei siciliani, i catanesi Marcello D’Agata, Aldo Ercolano, Eugenio Galea, Vincenzo Salvatore Santapaola, Francesco Romeo e Maurizio Avola. Dieci gli indagati calabresi: Giuseppe Piromalli, Giovanni e Paquale Tegano, Antonino Pesce, Giorgio De Stefano. Il gotha della ‘ndrangheta. Cui si aggiungono Vincenzo Zito, Pasquale e Vincenzo Bertuca, Santo Araniti e Gino Molinetti. Ancora lui.

Ma mesi dopo, anche quest’ultima speranza di arrivare a una verità storica e giudiziaria, sembrerà tramontare quasi definitivamente. Gli accertamenti eseguiti sul fucile calibro 12 di fabbricazione spagnola fatto ritrovare da Avola non danno alcun esito. Arma troppo vecchia. Ossidata e incrostata. Le sue pessime condizioni strutturali non consentirebbero, quindi, di poter effettuare tutti gli esami previsti. Verrebbe meno, così, una prova regina utile alla ricostruzione del delitto.

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