Nicola Calipari. Un eroico funzionario dello Stato. Oppure la persona giusta nel luogo e momento sbagliati.
Morto nel compimento del proprio dovere oppure vittima di una tragica fatalità.
Il calendario scorre e segna, oggi, diciotto anni dalla morte dello 007 originario di Reggio e cosentino adottivo. Ma anche poliziotto cosmopolita, con esperienze all’estero, iniziate nel 1988 in Australia presso la National Crime Authority alla quale fornì la propria collaborazione su un argomento che ogni sbirro calabrese sa a menadito: la ’ndrangheta.
Ma riavvolgiamo il nastro.
Il rapimento
L’Iraq non è una zona sicura. Non lo è, soprattutto, nei primi mesi del 2005, un anno e mezzo dopo la fine della fase principale della Seconda guerra del Golfo, che ha cancellato il regime di Saddam Hussein e destabilizzato il Paese.
L’Iraq di quegli anni, insicuro per i militari, è addirittura pericolosissimo per i civili.
Funzionari, volontari o giornalisti.
Di questa pericolosità fa le spese Giuliana Sgrena, firma storica de Il Manifesto e collaboratrice di Die Zeit.
La giornalista piemontese, nel febbraio 2005 è a Baghdad, per scrivere dei reportage sulla guerra. Il 7 febbraio 2005 viene rapita vicino alla zona universitaria.
Poco meno di un mese prima, il 5 gennaio 2005, viene rapita un’altra giornalista: la francese Florence Aubenas, inviata e firma di primo piano di Liberation.
Terra pericolosa
Calipari è l’uomo giusto al momento e nel posto sbagliati.
Lo 007 calabrese si trova in Iraq alle dipendenze del Sismi, il Servizio per le informazioni e la sicurezza militare, di cui fa parte dal 2002, dopo una brillante carriera in Polizia.
E c’è da dire che opera bene: gestisce alla grande le trattative per la liberazione di Simona Parri e Simona Torretta, due giovani cooperanti italiane. Fa altrettanto bene nei casi di Umberto Cupertino, Maurizio Agliana e Salvatore Stefio, tre vigilanti italiani, anch’essi sequestrati da sedicenti jihadisti.
Le cose, invece, vanno meno bene per il vigilante Fabrizio Quattrocchi, rapito il 13 aprile 2004 e ucciso in favore di telecamera il giorno successivo. E per il giornalista e blogger Enzo Baldoni, rapito il 21 agosto 2004 e ucciso presumibilmente cinque giorni dopo.
A tu per tu con la Jihad
Per Calipari l’affaire Sgrena è praticamente routine.
Con una variante: di tutti i rapiti, la giornalista piemontese è la figura più nota. Per lei, infatti, si mobilita una buona parte dell’Italia “che conta”, a partire dal Presidente Carlo Azeglio Ciampi.
Non solo: anche una fetta dell’Islam sunnita scende in campo.
Ma cos’hanno in comune tutti questi rapimenti?
Terroristi farlocchi
C’è un sospetto pesantissimo: tutte le sigle, più o meno “integraliste”, sarebbero in realtà gruppi criminali comuni.
Le richieste, dopo i rapimenti, sono praticamente simili: via le truppe italiane. Ma tutto si sarebbe risolto col classico pagamento di un riscatto. Anche, secondo alcune fonti, per la Sgrena. Il problema si complica: come fa un Paese occupante a trattare senza perderci la faccia? Per questo la parola passa ai Servizi segreti.
E non si sarebbe saputo niente, se Nicola Calipari non ci avesse rimesso la pelle.
Ma riavvolgiamo ancora il nastro.
Il supersbirro odiato dalla ’ndrangheta
Classe ’53, formazione cattolica e laurea in Giurisprudenza, Nicola Calipari entra in Polizia nel 1979, dove fa una carriera fulminante, prima a Genova poi a Cosenza, dov’è capo della Squadra mobile negli anni terribili della guerra di mafia.
Di lui ha parlato il pentito Dario Notargiacomo, già “notabile” della cosca Perna-Pranno. A suo dire, proprio Franco Perna lo avrebbe voluto morto.
E forse la trasferta in Australia è dovuta alla necessità di sottrarre Calipari ai killer, che avevano fatto già fuori Sergio Cosmai, il direttore del carcere di Cosenza.
Tornato in Italia, il superpoliziotto riprende la carriera a Roma, dove scala di nuovo i gradini fino a lambire incarichi governativi. Resta un interrogativo: come mai un poliziotto diventa uno 007 per il Sismi anziché per il Sisde (i Servizi segreti civili)?
Mistero. O forse no. Forse aveva ragione Federico Umberto d’Amato, l’ex capo dell’Ufficio affari riservati a dire che i militari sono pessimi agenti segreti. Ed ecco che i Calipari prestano aiuto. Anche a prezzo della vita.
L’epilogo
La sera del 4 marzo 2005 Nicola Calipari è in auto. Siede sul sedile posteriore, vicino a Giuliana Sgrena, appena liberata. Alla guida c’è Andrea Carpani, maggiore dei carabinieri, anche lui in forza al Sismi.
L’auto è diretta all’aeroporto di Baghdad e, per arrivarci, passa per la Route Irish, dove c’è un check point statunitense.
L’autista e i due passeggeri non hanno il tempo di capire cosa sta succedendo: prima li abbaglia un potente fascio di luce, poi diventano bersaglio di raffiche di proiettili.
Sgrena e Carpano restano feriti. A Calipari, che si getta addosso alla giornalista, va peggio: un proiettile lo colpisce alla nuca e muore sul colpo.
Il mistero della Seconda repubblica
La morte dello 007 apre un braccio di ferro militar-diplomatico tra Italia e Usa.
L’inchiesta appura che a sparare le pallottole fatali è Mario Lozano, un mitragliere dei marines, che finisce sotto processo nel suo Paese e in Italia.
Americani e italiani litigano come possono, cioè nei limiti consentiti dal comune impegno militare che costa tante vite a entrambi.
Secondo gli americani, l’auto su cui viaggiano Calipari e Sgrena era in eccesso di velocità e non si sarebbe fermata all’alt. Secondo gli italiani, invece, il veicolo viaggiava a velocità contenuta (circa 50 chilometri orari) e, ha aggiunto Sgrena, non ci sarebbe stato alcun check point visibile.
Il sospetto atroce
Tra le due versioni si insinua un sospetto: gli americani non gradiscono la facilità con cui l’Italia paga i riscatti alle sedicenti sigle jihadiste autrici dei rapimenti e dei relativi ricatti.
E non a caso si è ipotizzato il pagamento di 5 milioni di euro per la liberazione della giornalista.
La vicenda giudiziaria, iniziata tra mille polemiche e coi riflettori puntati, si è risolta in nulla: gli Usa assolvono Lozano dall’accusa di omicidio, ma l’Italia non può procedere, perché la competenza giudiziaria sulla vicenda, verificatasi in Iraq, è americana.
Cosa resta dell’eroe
Il ruolo e l’attività di Nicola Calipari sarebbero dovute restare anonimi, come da tradizione dei Servizi segreti, non solo italiani.
E invece no: Calipari muore da eroe e, col suo sacrificio, riabilita i Servizi, bersaglio fino ad allora di una letteratura giornalistica a dir poco avversa e spesso a ragione.
Secondo Giuseppe De Lutiis, uno dei massimi esperti italiani di intelligence, la morte di Calipari segna uno spartiacque. E probabilmente accelera la riforma dei nostri Servizi. Ma questa è un’altra storia.
Calipari ha lasciato due figli e una vedova, Rosa Villecco Calipari, diventata poi senatrice del Pd, cioè in quell’ambiente postcomunista che, tranne poche eccezioni, aveva preso di mira i Servizi. Anche questa è un’altra storia.