Può capitare che una quindicina di uomini seduti attorno a un tavolo si salutino augurandosi «buon vespro, società» e sincerandosi che tutti siano «conformi». Che qualcuno di loro evochi i mitologici «cavalieri di Spagna Osso, Mastrosso e Carcagnosso», oppure delle «prescrizioni» risalenti «al 1830» e le «regole sociali» che vengono «dal Crimine». Che quello che sembra il più esperto di certe cose dica di essere – beninteso, «senza offesa» – se non tra i primi dieci, sicuramente «tra i primi quindici della Calabria».

Onore, estorsioni ed eroina. Ma non è mafia
Può capitare che si parli di una «società» che esiste dal 1970 e che «è onore, saggezza, rispetto». Che i convitati vengano rassicurati sul fatto che «c’è lavoro su tutto: estorsioni, coca, eroina; 10 chili, 20 chili al giorno, ve li porto io personalmente e poi non voglio sapere più niente…». E che tutto questo sia nient’altro che una spacconata, folclore, parole. Soprattutto, che non sia mafia.

Dalle Serre a Frauenfeld
Le riunioni sono state immortalate da una telecamera (qui il video diffuso da Rsi News) che i carabinieri di Reggio Calabria avevano piazzato, ormai un decennio fa, nel ristorante di una bocciofila nei pressi di Frauenfeld (Canton Turgovia). Ne è venuta fuori un’inchiesta che ha fatto epoca, “Helvetia”, sulla riproduzione delle dinamiche della ‘ndrangheta che da Fabrizia, paese sulle montagne delle Serre al confine tra Vibonese e Reggino, erano state trapiantate in Svizzera. Scattata nel 2014, l’indagine si era poi divisa in due tronconi e in primo grado il Tribunale di Locri aveva emesso una serie di condanne per associazione mafiosa.

Sentenze ribaltate: dal carcere duro alla libertà
La tesi della cellula svizzera della ‘ndrangheta di Fabrizia – non mancano certo altre prove delle ramificazioni internazionali della mafia calabrese – è stata però in parte smontata già nel 2019 dalla Cassazione che, dopo qualche anno di 41 bis e una condanna a 14 anni nel primo troncone, ha scagionato definitivamente quelli che gli inquirenti avevano invece ritenuto il «capo società» e il «mastro disponente». Altrettanto storica è stata la sentenza con cui la Corte d’Appello di Reggio nel novembre scorso, dopo le prime 3 assoluzioni sentenziate già nel maggio del 2020, ha ribaltato il primo grado dell’altro troncone assolvendo anche gli altri 9 imputati «perché il fatto non sussiste».

Affiliati ma innocui
Di recente sono state depositate le motivazioni delle sentenza che, ancorché appellabili, cristallizzano un punto destinato a rimanere uno spartiacque della giurisprudenza sulla materia. Nel caso di specie i giudici non hanno ravvisato gli elementi previsti dall’art. 416 bis (associazione mafiosa) «non essendo emersa una qualsiasi forma di manifestazione esterna degli elementi essenziali della fattispecie legale tipica e, dunque, venendo a mancare, in definitiva, lo stesso fatto tipico enunciato dalla disposizione incriminatrice, attesa l’assenza di condotte esteriori, sul territorio estero in questione, e concretamente offensive ricollegabili al paradigma normativo del delitto associativo oggetto di contestazione».
Non bastano le intercettazioni
Fuori dal gergo giudiziario, è chiaro che i giudici reggini intendono mettere nero su bianco come per configurare il reato di mafia non basti assumere pose da malandrini, in un contesto ristretto come un tavolo di una bocciofila, e manifestare intenti criminali, senza che all’esterno di quel circolo ci sia prova di comportamenti realmente conseguenti. Tanto più che «la piattaforma probatoria dell’intero procedimento è costituita in massima parte, se non esclusivamente, da intercettazioni».
«Impossibile dire che esiste quella ‘ndrina»
Perché sia mafia, insomma, ci si deve avvalere concretamente del metodo mafioso e non solo enunciarlo. E di ciò occorre un riscontro nell’azione della cosca, la cui forza di intimidazione deve essere percepita come tale all’esterno. Altrimenti i giudici, almeno quelli che si sono occupati di questo caso, prendono atto «dell’impossibilità», sulla base di tutto quello che è confluito nell’indagine, di «affermare l’esistenza, nella cittadina svizzera di Frauenfeld, di un’articolazione di ‘ndrangheta».

Nessuna pena per le intenzioni
Non basta nemmeno che vengano focalizzate delle gerarchie determinate con il conferimento di cariche e doti. Richiamando il contenuto di un altro recente pronunciamento della Cassazione (27 maggio 2021), i giudici della Corte d’appello di Reggio concludono infatti che «persino l’accertato possesso di una dote di ‘ndrangheta, come nel caso in esame, esige che il vincolo criminoso si sia esteriorizzato e l’ulteriore coevo accertamento – in capo all’agente – di una condotta materiale nell’alveo del consorzio illecito per poter così ritenere integrata una sua condotta penalmente rilevante (un fatto dunque) ex art. 416 c.p., piuttosto che un qualcosa di confinato nel perimetro delle intenzioni, come tali irrilevanti per il noto principio per cui cogitationis poenam nemo patitur». Tradotto: per quanto si atteggi a guappo, nessuno può essere punito per i propri – certamente esecrabili – propositi se alle parole non seguono i fatti.