Ministri calabresi? Il buio oltre Mancini, Misasi e (forse) Minniti

Una regione battuta persino dal piccolo Molise nella storia repubblicana. A parte il leone socialista e il compare di Aldo Moro, il resto è una piccola carrellata di nomi che hanno gestito ben poco. Solo il reggino, ex capo dei servizi segreti è riuscito a ricoprire un ruolo di primo piano al Governo

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«Al Pci i cervelli, alla Dc i bidelli», recitava un adagio che spiegava in pillole l’egemonia comunista e bollava la presunta insensibilità culturale della Balena Bianca.
Un giudizio ingeneroso, perché i vertici nazionali della Democrazia cristiana furono di altissima caratura intellettuale.
Tuttavia, un giudizio non del tutto immotivato, anzi, aveva un bersaglio politico e un riferimento territoriale: Riccardo Misasi e la Calabria.
Il clientelismo spinto fu l’accusa più rivolta dagli avversari, esterni e interni, all’ex big scudocrociato, che, nel suo primo mandato da ministro della Pubblica istruzione (1970-1972), riempì le scuole italiane di bidelli calabresi reclutati su chiamata diretta.

L’ex ministro democristiano Riccardo Misasi – I Calabresi

Altri tempi, di cui oggi, nel Sud profondo, coltivano in tanti una nostalgia morbosa. Allora sì, la Calabria “contava” grazie ai Misasi, che, recita un altro adagio, «mangiavano ma facevano mangiare». E contava anche grazie a Giacomo Mancini, che fu addirittura leader di Partito e ricoprì incarichi ministeriali importantissimi.
I due big, scomparsi a inizio millennio, praticamente assieme al secolo su cui avevano inciso e che li aveva resi grandi, sono diventati il “mito incapacitante” della politica calabrese che, senza di loro, avrebbe senz’altro avuto un peso minore nella storia del Paese e che, dopo di loro, si è ridotta a poca cosa.

Ministeri alla calabrese, i prototipi

In realtà, i calabresi “di governo” esplosero un po’ prima. Per la precisione, durante la Grande Guerra e nei governi Giolitti IV, Boselli, Orlando e Giolitti V.
In questi governi ricoprirono incarichi di assoluto prestigio il silano Gaspare Colosimo – che fu ministro delle Poste dei telegrafi, delle Colonie e dell’Interno -, il reggino Giuseppe De Nava – che occupò tutti i dicasteri economici e concluse l’età liberale da ministro del Tesoro – e il cosentino Luigi Fera, che fu ministro delle Poste e di Grazia e giustizia.
L’ingresso dei calabresi nei ministeri proseguì col fascismo, in cui ebbe un ruolo di prima grandezza Michele Bianchi. Di più: è proprio lui il prototipo del ministro calabrese di successo e di potere, il modello che si sarebbe riprodotto nella Prima Repubblica senza colpo ferire.

Michele Bianchi, segretario del Partito nazionale fascista e ministro – I Calabresi

Forse quello che gli somiglia di più è Giacomo Mancini, che ebbe la stessa visione politica (l’inclusione della piccola borghesia e degli strati popolari nelle strutture pubbliche e di partito) e la stessa concezione economica (l’uso delle opere pubbliche come volano di crescita finanziaria e di sviluppo) del quadrumviro mussoliniano.
Don Giacomo fascista? Proprio no. Al contrario, Bianchi socialista. E calabrofilo al pari del compianto “leone”.
«Cosenza, che Michele Bianchi ha voluto bella», scrisse Pietro Ingrao nella sua autobiografia. E Mancini, da sindaco, tentò di rifarla bella circa settant’anni dopo.

Superterroni di governo

I ministri calabresi nei governi repubblicani sono in tutto dodici su un totale di 591. Tolti Misasi e Mancini, nessuno di loro ha avuto un peso politico forte.
Quello che si è avvicinato di più ai due grandi è Marco Minniti, che ha ricoperto il ministero dell’Interno nel governo Gentiloni. Tutto il resto, è roba di sottosegretariati e incarichi vari, assegnati il più delle volte per semplici questioni di equilibri territoriali e senza andare troppo per il sottile. Dodici ministri sono poca roba nella storia dell’Italia repubblicana, in cui hanno fatto la parte del leone quattro regioni: Lombardia, Sicilia, Campania e Lazio, che hanno avuto circa la metà dei ministri.

Questo per restare ai paragoni assoluti. Ma anche all’interno del Sud la Calabria non è messa benissimo. In termini relativi, la batte anche il piccolo Molise che, coi suoi cinque ministri, ha espresso più “governabili” rispetto alla propria demografia. In pratica, un ministro ogni 60mila abitanti su una popolazione di circa 300mila.
La Calabria, invece, ne ha ottenuto uno ogni 158mila e rotti, calcolati su una popolazione complessiva media di 1 milione e 900mila.

Dop di Calabria

A questa statistica, occorre aggiungere un’altra considerazione: non tutti i ministri calabresi sono o sono stati realmente tali. Certo, calabrese era Fausto Gullo che, a cavallo tra la fine del Regno d’Italia e l’inizio dell’era repubblicana, fu al governo come ministro dell’Agricoltura prima e di Grazia e giustizia dopo.

Non può essere considerato, invece, un dop di Calabria il democristiano Nicola Signorello, che è nato nel Vibonese ma ha fatto carriera a Roma, di cui fu presidente della Provincia dal 1961 al 1965 e sindaco dal 1985 al 1988. Tutto il resto, cioè le elezioni in Parlamento e i dicasteri ministeriali, lo ha ottenuto grazie ai voti della circoscrizione laziale e alla militanza andreottiana. Nessun legame col territorio e gli elettori calabresi per lui.

Lo stesso discorso vale per il socialista Emilio de Rose, che nacque a Marano Marchesato ma fece carriera, di medico e di politico, a Verona con voti veneti. E vale ancor più per Claudio Vitalone, che scalò i vertici della magistratura a Roma e quelli politici nella Dc grazie alla militanza andreottiana. Fu eletto senatore in Puglia e in Ciociaria e non ha mai avuto rapporti diretti con la sua Reggio Calabria e con gli elettori calabresi.

Per quel che riguarda la Seconda repubblica, non si può dare il dop a Linda Lanzillotta, originaria di Cassano all’Ionio ma vissuta a Roma, dove ha fatto carriera nei ministeri, prima da funzionaria e poi da politica. Protagonista di un lungo viaggio dalla Margherita al Pd, intervallato dalla militanza nell’Api rutelliano e tra i montiani di Scelta Civica, Lanzillotta ha gestito gli Affari regionali e le autonomie locali nel II governo Prodi. È stata eletta in Lombardia e in Umbria. Cassano per lei è sì e no un ricordo.
Tolti questi quattro, il ruolo della Calabria risulta ridimensionato. Per fare un ministro ci vogliono 237mila e rotti calabresi. Quattro volte che in Molise.

Perdita di peso

Al contrario, c’è stato un calabrese adottivo di successo: il reatino Dario Antoniozzi, concittadino per nascita di Lucio Battisti cresciuto a Cosenza dove papà Florindo dirigeva la Cassa di risparmio di Calabria e di Lucania, una delle voci più importanti del potere calabrese. Formatosi in Calabria e cresciuto nei ranghi della Dc cosentina, Antoniozzi è arrivato prima a Montecitorio e poi a Strasburgo coi voti dei suoi corregionali “adottivi”. Grazie al peso della Dc calabrese, ha ricoperto i dicasteri del Turismo e dello spettacolo prima e quello dei Beni culturali poi (e c’è chi maligna, nei suoi riguardi, di un numero di bibliotecari uguale a quello dei bidelli di Misasi…).

Dario Antoniozzi, ex ministro della Democrazia Cristiana – I Calabresi

Dalla Seconda repubblica in avanti, il bottino è decisamente magro: due soli ministri (Maria Carmela Lanzetta e Marco Minniti). A cosa è dovuta questa perdita di peso? Torniamo al parametro Michele Bianchi per capire meglio. Bianchi lasciò la Calabria da ragazzo, fece carriera nel sindacato, fu tra i fondatori del Pnf, di cui divenne segretario. Infine entrò nella squadra di governo di Mussolini, prima come sottosegretario e poi come ministro dei Lavori pubblici. Tutto senza mai perdere contatto col suo territorio, il Cosentino, a cui tentò di redistribuire risorse grazie al prestigio e al potere personale accumulati.

Marco Minniti, ex ministro dell’Interno e sottosegretario con delega ai Servizi segreti – I Calabresi

Questo stesso meccanismo si applica, come già detto, a Giacomo Mancini e a Riccardo Misasi, che vantavano rapporti privilegiati e diretti (quello di Mancini con Nenni è tutto da approfondire ed è quasi superfluo ricordare che il nonno di Misasi fu testimone di nozze e compare d’anello del papà di Aldo Moro…).
Ma vale anche per tutti gli altri.

La tragedia delle autonomie

Cos’avevano in comune l’Italia della Prima repubblica e i suoi partiti col ventennio fascista? La risposta è banale: le istituzioni pubbliche accentrate.
Tutto, apparati dello Stato e strutture dei partiti, faceva capo a Roma, senza soluzioni di continuità.
Citare può essere pesante, ma in questo caso è doveroso. Infatti, gli analisti più recenti della questione meridionale (il napoletano Paolo Macry, il calabrese Vittorio Daniele e l’abruzzese Emanuele Felice) concordano su un dato: la maggiore crescita del Sud, coincidente con il boom economico, avvenne tra gli anni ’60 e il decennio successivo e fu propiziata proprio dal sistema accentrato, che aveva generato un meccanismo politico semplice ma efficace.

In pratica, i politici erano obbligati dai propri elettori a “strappare” qualcosa al centro per portarlo a casa. Ciò valeva per la Calabria come per il Friuli.
Il declino politico del Sud, con tutta probabilità, dipende da tre fattori: la “territorializzazione” della politica, iniziata nel  ’93 con l’elezione diretta dei sindaci, il decentramento amministrativo spinto e disordinato e la fine dei vecchi partiti, che funzionavano anche come scuole e palestre politiche.
Ed ecco che le cose all’improvviso cambiano. Il Sud, tranne Campania e Sicilia, arretra ed emergono altri territori, come l’Emilia Romagna e l’Umbria, che aumentano i propri ministri.

Il fattore legale

A queste trasformazioni, occorre aggiungere il fattore legalitario. Ciò che prima si tollerava, in nome dello sviluppo, oggi viene avversato in nome della legalità.
Infatti, a partire dalle vecchie inchieste di de Magistris, la Calabria è diventata una zona minata, in cui i leader nazionali si muovono a fatica e solo se costretti. Scivolare sulla buccia di banana o “pestare la cacca” è più facile da noi che altrove. E questo spiega perché il centrodestra non ha mai creato ministri calabresi. O perché il centrosinistra ha distribuito i ruoli col contagocce. Basta il fascicolo di un pm e una buona campagna stampa per mandare all’aria mesi e anni di attività politica.

Ed ecco che la Calabria si è ritrovata così ai margini che per avere un ministro con una delega importante si è dovuto attendere Marco Minniti. E il fatto che Minniti abbia mollato la politica istituzionale non fa ben sperare…

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