Migranti come schiavi, sotto inchiesta la moglie dell’ex prefetto anti Lucano

Michele Di Bari, dopo l'esperienza in Prefettura a Reggio e Vibo, guidava il Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione del ministero degli Interni. Si è dimesso dopo le accuse alla consorte, indagata per caporalato dalla Procura di Foggia

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È durato poco più di due anni e mezzo l’interregno di Michele Di Bari al comando del Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione del ministero degli Interni, organo che si occupa di gestire tutti, o quasi, i migranti nel nostro Paese. L’ex Prefetto di Reggio e Vibo ha presentato alla ministra Lamorgese le proprie dimissioni. Pochi minuti prima le agenzie avevano battuto la notizia dell’indagine costata a Rosalba Livrerio Bisceglia – moglie di Di Bari – un provvedimento di obbligo di dimora e l’obbligo di firma alla Pg.

Il tribunale di Foggia
Il tribunale di Foggia

Secondo le accuse della procura di Foggia la donna, proprietaria di un’azienda agricola in Puglia, si sarebbe rivolta ad un uomo di origine gambiana per il reclutamento di alcuni operai, risultati poco più che schiavi e vittime di quel sistema di caporalato e sfruttamento del lavoro che accomuna il nord della Puglia al sud della Calabria. «Sono dispiaciuto moltissimo per mia moglie che ha sempre assunto comportamenti improntati al rispetto della legalità. Mia moglie – ha dichiarato Di Bari comunicando il suo passo indietro – insieme a me, nutre completa fiducia nella magistratura ed è certa della sua totale estraneità ai fatti contestati, confidando che presto la misura dell’obbligo di dimora sarà revocata».

Foggia come Rosarno

C’è dell’ironia nelle dimissioni dell’ex Prefetto di Reggio che, completamente estraneo all’indagine, è caduto per “opportunità politica” proprio a causa di un’inchiesta che affonda le radici in quel sistema di mancata integrazione e semi schiavitù che, da prefetto calabrese, lo ha visto protagonista di tante pagine della cronaca recente. Sbarcato in riva allo Stretto nel 2016 Di Bari può “vantare” un curriculum fatto di 19 commissioni d’accesso spedite in altrettanti comuni del reggino, con uno score di 18 commissariamenti per mafia ottenuti, praticamente un record.

Ma è con i migranti che Di Bari si fa notare, guadagnandosi sul campo il posto nella cabina di regia del Viminale mantenuto fino a venerdì. I carabinieri di Manfredonia hanno individuato nella baraccopoli della “ex pista” di Borgo Mezzanotte lo slum dove i migranti vittima di caporalato protagonisti della vicenda foggiana trovavano rifugio. Uno slum praticamente identico a quello sorto alle spalle del porto di Gioia Tauro all’indomani della rivolta del 2010 e che la Prefettura guidata da Di Bari fece sgomberare in favore di telecamera durante una visita dell’allora titolare del Viminale, Matteo Salvini.

Le tendopoli di San Ferdinando

Uno sgombero reso necessario dalle condizioni disumane in cui erano costretti i migranti ospitati (e nel quale trovò la morte, tra gli altri, anche Becky Moses, la donna nigeriana costretta dai decreti sicurezza ad abbandonare i progetti di Riace, e arsa viva nella baracca dove aveva trovato rifugio). E che si dimostrò praticamente inutile, visto che a distanza di qualche giorno, una nuova tendopoli, autorizzata dalla stessa Prefettura, fu installata 500 metri più in là, in uno dei tanti slot vuoti del deserto post atomico della zona industriale del porto di Gioia.

Da Riace a Roma

E se a Rosarno era stato necessario l’utilizzo delle ruspe per radere al suolo la baraccopoli della vergogna, a Riace furono gli ispettori inviati dalla Prefettura di Di Bari, a smantellare il progetto di accoglienza ideato dall’ex sindaco Mimmo Lucano. Progetto che di quello che succedeva a Rosarno rappresentava l’esatta antitesi. Sono almeno cinque le relazioni che i funzionari reggini hanno stilato, a partire dal 2016, sul modello di integrazione e accoglienza che tra mille difficoltà aveva portato Riace, minuscolo e semi spopolato paesino dello Jonio reggino, all’attenzione di mezzo pianeta.

mimmo_lucano
Mimmo Lucano

E se in una delle relazioni – sulla quale si è basata parte dell’indagine della guardia di finanza – si sottolineavano le tante criticità legate alla gestione del denaro, in un’altra – a lungo “impantanata” negli uffici della Prefettura reggina da cui è riemersa solo dopo una formale denuncia – si certificava la capacità propositiva e inclusiva di un “modello” capace di ripopolare con profughi e richiedenti asilo, un centro abbandonato dai suoi stessi abitanti a loro volta migrati lontano in cerca di maggiore stabilità. Un modello ormai sepolto dai 13 anni di condanna inflitti all’ex sindaco dal tribunale di Locri, ma che era stato già minato dalla progressiva serrata dei progetti d’accoglienza. Serrata in cui Di Bari recitò un ruolo da protagonista.

La “maledizione di Lucano”

Di Bari non è l’unico funzionario finito – seppure di riflesso – nel tritacarne di un’indagine sui migranti in seguito alla chiusura dei progetti di Riace. Per uno strano caso del destino infatti anche altri due funzionari sono rimasti invischiati in altrettante indagini a pochi mesi dalla chiusura del paese dell’accoglienza. Come nel caso di Salvatore Del Giglio, che di una di quelle relazioni prefettizie fu estensore e che finì indagato dalla Procura di Palmi per una presunta relazione falsa legata ai progetti d’accoglienza a Varapodio, sul versante tirrenico d’Aspromonte. O come nel caso di Sergio Trolio – che nel processo locrese fu uno dei testimoni dell’accusa come ex tutor dei servizi Sprar – finito indagato dalla Procura di Crotone per una serie di presunte truffe legate proprio al mondo dei migranti.

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