La vicenda Marlane continua a far notizia. Dopo le assoluzioni importanti del primo processo penale, e in attesa degli esiti definitivi del secondo ancora in corso, la giustizia civile dà le prime risposte alle vittime e ai loro familiari.
I giudici della Corte d’Appello di Catanzaro stanno ribaltando le sentenze di primo grado relative ad alcuni ricorsi dei congiunti di persone nel frattempo decedute per i tumori contratti mentre lavoravano nello stabilimento di Praia a Mare.
Marlane: verità per un’altra vittima
La più recente di queste decisioni (ma negli ultimi 12 mesi si contano sulle dita di una mano le sentenze sul caso Marlane) riguarda il marito di una delle 120 persone che si sono ammalate di cancro per essere venute a contatto con materiali tossici di varia natura (ad esempio cromo esavalente e arsenico).
L’uomo nel 2009 aveva presentato una richiesta di indennizzo all’Inail come previsto dalla normativa nel caso di infortunio sul lavoro o malattia professionale.
Per i giudici del Tribunale di Paola questa richiesta era prescritta perché proposta oltre il termine. Infatti, i magistrati avevano ritenuto che il termine di tre anni si dovesse calcolare dal 1999, quando i medici avevano diagnosticato alla donna un carcinoma mammario. Già allora, secondo i giudici di primo grado, la lavoratrice era in grado di sapere che la sua malattia derivasse dal lavoro svolto presso Marlane.
La norma
È il caso di approfondire un po’, a partire dalla normativa. L’articolo 112 del dpr 1124 del 1965 (il testo unico che regola gli indennizzi) stabilisce che l’azione per ottenere il riconoscimento della malattia professionale si prescrive in tre anni dal giorno della manifestazione della malattia stessa. Tuttavia, le successive pronunce della Cassazione hanno chiarito altrimenti e in modo inequivocabile il momento in cui deve scattare il countdown di tale prescrizione.
Marlane: il processo a Paola
La dinamica di questa vicenda è piuttosto singolare. Il marito della lavoratrice, infatti, aveva fatto ricorso al Tribunale di Paola contro l’Inail, che aveva negato l’indennizzo all’operaia, nel frattempo deceduta.
Come già detto, i magistrati di primo grado non erano entrati nel merito, ma si erano limitati a rigettare il ricorso perché tardivo e presentato oltre i termini di prescrizione (che secondo loro scadevano nel 2001).
Al riguardo, è illuminante un passaggio della sentenza: «Era stato lo stesso ricorrente ad assimilare la condizione lavorativa della defunta moglie a quella di un suo collega, il quale aveva contratto, anche lui come altri 120 lavoratori del medesimo stabilimento industriale, una patologia neoplastica che, in sede giudiziale, a seguito della denuncia da questi presentata nel 1999, era stata riconosciuta di origine professionale. Sicché, secondo il tribunale, quando gli era stata diagnosticata la malattia tumorale, il ricorrente non poteva non essere consapevole quanto meno della potenziale genesi lavorativa della malattia. È pertanto inverosimile che abbia appreso solo nel 2008 della vicenda giudiziale del suddetto collega per poi presentare la domanda all’Inail il 5 novembre del 2009».
L’appello
Il vedovo appella la sentenza di Paola del 2012. Allo scopo, sostiene che sua moglie (poi defunta) era venuta a conoscenza solo nel 2008 del fatto che l’Inail aveva riconosciuto al suo collega la dipendenza del carcinoma dalle sostanze tossiche presenti dello stabilimento. Prima, invece, non aveva informazioni che lo rendessero capace di identificare l’origine professionale della sua malattia.
I giudici di Catanzaro gli hanno dato ragione. Cosa che d’altronde hanno già fatto gli scorsi mesi per altri casi simili. sempre legati alla Marlane.
Marlane: la sentenza di Catanzaro
Ecco il passaggio chiave della sentenza con cui la Corte d’Appello ha dato ragione al vedovo: «La decisione impugnata va riformata perché il collegio non condivide il giudizio espresso dal tribunale in ordine alla sufficienza, ai fini dell’esordio della prescrizione, della teorica conoscibilità che l’odierno appellante poteva avere dell’origine professionale della malattia diagnosticata alla signora nel 1999».
Questa sentenza si basa su una pronuncia della Cassazione del 2018. La Suprema Corte, a sua volta, aveva applicato un’indicazione della Corte Costituzionale, secondo la quale la prescrizione può ritenersi verificata quando la consapevolezza della malattia, la sua origine professionale e il suo grado invalidante, «siano desumibili da eventi obiettivi esterni alla persona dell’assicurato, che debbono costituire oggetto di specifico accertamento da parte del giudice di merito».
Il risultato
L’aspetto materiale e privato di questa vittoria, non è trascurabile. Infatti, il coniuge (e vincitore in giudizio) otterrà il 50% della retribuzione effettiva annua della defunta moglie, più gli arretrati, gli interessi e la rivalutazione a partire dal 2009.
Più un assegno funerario di 10mila euro circa.
Certo, non basta a restituire una persona amata. Tuttavia, la sentenza ha un altro merito, forse superiore: è un contributo in più alla verità. Quella processuale, si capisce.
Punto e a capo
I giudici d’Appello hanno fatto chiarezza per l’ennesima volta sugli esiti tragici e di lungo periodo della vicenda Marlane.
Tutto questo mentre il secondo processo penale entra nel vivo.
Quest’ultima sentenza è un ulteriore tassello di verità storica che entra nelle carte processuali. Resta lecita una domanda: quando potrà calare davvero il sipario sull’affaire Marlane?