Sei anni senza verità, senza giustizia. Per molti anche senza memoria. Ma non si arrende la famiglia di Maria Chindamo, l’imprenditrice scomparsa nel nulla il 6 maggio 2016 tra le province di Reggio Calabria e Vibo Valentia. Proprio oggi, a Limbadi, il sit-in per richiamare la memoria, promosso da Libera, Agape, comitato Controlliamo Noi Le Terre di Maria, Penelope Italia Odv.
La storia di Maria Chindamo
Non un luogo casuale. Una roccaforte della ‘ndrangheta, Limbadi, dove la cosca Mancuso uccide ancora tramite autobomba, come nel caso di Matteo Vinci. Anche la storia di Maria Chindamo è intrisa di mafiosità. Di certo sotto il profilo della mentalità ‘ndranghetista. Sotto il profilo penale, si vedrà.
Nel 2015, il marito della donna, Ferdinando, si suicida, non accettando la fine della relazione. Circa un anno dopo, Maria scompare nel nulla, in quella che sembra una normale giornata, trascorsa tra la famiglia, a Laureana di Borrello, in provincia di Reggio Calabria, e l’azienda di proprietà, a Limbadi, nel Vibonese.

Le modalità mafiose
Da anni, la famiglia di Maria Chindamo chiede che venga infranto il muro di omertà che soffoca il territorio. Lo fa anche attraverso la formazione dei più giovani: «Una volta – dice a I Calabresi Vincenzo Chindamo, fratello di Maria – un ragazzo in una scuola mi ha chiesto se abbia mai pensato di farmi giustizia da solo. Ma parlare ai giovani, creare un indotto di pensiero contro la subcultura mafiosa è farsi giustizia da solo».
Da sei anni, Maria non si trova più. Nessuno ha mai chiesto un riscatto. E, nel probabile caso in cui la donna sia stata uccisa già nell’immediatezza del rapimento, la famiglia non ha mai avuto una salma da piangere. Un femminicidio perpetrato con le modalità ndranghetistiche, in cui la ‘ndrangheta potrebbe avere un ruolo importante. O ha verosimilmente consentito una rete di protezione di tipo criminale.
Fin dall’inizio si affaccia l’ipotesi inquietante che Maria sia stata punita proprio per aver lasciato il marito. Perché ha “osato” interrompere la relazione con il marito. E perché ha tentato di rifarsi una vita, sentimentale e lavorativa. Per questo andava punita, non solo con l’uccisione, ma anche con la sparizione, per cancellarla per sempre. Eccola la cultura ‘ndranghetista. La damnatio memoriae che deve accompagnare, nel linguaggio cifrato, chi si è macchiato di determinate “colpe”. Maria Chindamo va dimenticata. La “lupara bianca” serve proprio a questo.
Le indagini sulla scomparsa di Maria Chindamo
Maria Chindamo sarebbe stata aggredita davanti al cancello della propria azienda da due o più persone. Il motore della sua auto resterà acceso. A bordo gli inquirenti troveranno tracce di sangue e poco altro di utile. La Procura della Repubblica di Vibo Valentia per anni ha indagato per omicidio, sequestro di persona e occultamento di cadavere.
Ma quello della “vendetta familiare” non è l’unico movente che, in questi anni, si è affacciato sulla scena. Ne è convinta Angela Corica, giornalista che ha seguito moltissimo la vicenda: «Maria era una donna libera, non solo in termini sentimentali, ma anche sotto il profilo professionale. Forse le indagini hanno avuto qualche lacuna perché si sono concentrate troppo su una sola causa. Mentre io credo che vi sia un mix di motivazioni», dice a I Calabresi.
Fin dall’inizio, ci si concentra su diversi particolari che nessuno crede possano essere coincidenze. Dall’assenza di alcuni operai che Maria avrebbe dovuto incontrare quella mattina, al fatto che l’auto verrà ritrovata senza alcuna impronta estranea. Ma, soprattutto, la manomissione di una telecamera che avrebbe potuto immortalare i tragici attimi di quel 6 maggio 2016. Nel luglio del 2019 viene anche arrestato un uomo, Salvatore Ascone, in passato coinvolto in diverse inchieste riguardanti la cosca Mancuso.
Ma il Tribunale del Riesame prima e la Cassazione poi ritengono che non vi siano prove sufficienti e rimettono in libertà Ascone. «Il capitolo sulle telecamere potrebbe essere investigato ulteriormente», afferma a I Calabresi l’avvocato della famiglia Chindamo, Nicodemo Gentile. «Di sicuro qualcuno la seguiva e ha fatto da vedetta», aggiunge.
Le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia
Non un delitto di ‘ndrangheta, forse. Ma in cui la ‘ndrangheta sembra c’entrare eccome. In quelle zone, non si commette un crimine del genere senza il placet delle cosche. E infatti, negli anni, arrivano le dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia.
Il primo a parlare è Giuseppe Dimasi, un tempo affiliato alle cosche di Laureana di Borrello: «Con riferimento alla scomparsa di Mariella Chindamo, Marco diceva “secondo me gliel’hanno fatta pagare”, alludeva al fatto che la donna aveva avuto una relazione extraconiugale e il marito non accettando la separazione, si era suicidato». Il riferimento del pentito è a Marco Ferrentino, considerato il boss dell’omonima famiglia di ‘ndrangheta di Laureana di Borrello.
Più recenti le dichiarazioni di Antonio Cossidente, ex componente del clan lucano dei Basilischi, che riapre uno scenario che si è sempre affiancato alla pista dell’“onore”: quello delle attività economiche che Maria stava portando avanti su terreni che deteneva insieme all’ex marito e che potevano essere reclamati da qualcuno.

Maria Chindamo data in pasto ai maiali?
Secondo quanto ha riferito Cossidente alla Dda di Catanzaro, Maria sarebbe stata uccisa per essersi opposta alla cessione di un terreno a Salvatore Ascone, proprio l’uomo indagato per l’omicidio dell’imprenditrice. Il corpo della donna sarebbe poi stato dato in pasto ai maiali o macinato con un trattore.
A raccontare a Cossidente i fatti legati alla scomparsa di Maria Chindamo sarebbe stato Emanuele Mancuso, oggi collaboratore di giustizia, figlio del boss Pantaleone. Proprio il clan di Limbadi. Cossidente, infatti, trascorre una parte di detenzione con Mancuso e apprende alcuni particolari sulla scomparsa dell’imprenditrice di Laureana di Borrello: «Mi disse che lui era amico di un grosso trafficante di cocaina, detto Pinnolaro, legato alla famiglia Mancuso da vincoli storici e mi disse che per la scomparsa della donna, avvenuta qualche anno fa, c’era di mezzo questo Pinnolaro che voleva acquistare i terreni della donna in quanto erano confinanti con le terre di sua proprietà. Pinnolaro aveva pure degli animali, credo che facesse il pastore e questa donna si era rifiutata di cedere le proprietà a questa persona».
E “Pinnolaro” è proprio il soprannome di Ascone: «Pinnolaro l’ha fatta scomparire, ben sapendo che, se le fosse successo qualcosa, la responsabilità sarebbe ricaduta sulla famiglia del marito della donna, poiché il marito o l’ex marito dopo che si erano lasciati si era suicidato. Emanuele mi disse che la donna venne fatta macinare con un trattore o data in pasto ai maiali».
Il caso alla Dda
E proprio per questo, quindi, il fascicolo d’indagine dopo la scarcerazione di Ascone è passato alla Dda. «Non abbiamo notizia di provvedimenti di archiviazione, quindi questo ci lascia pensare che le indagini siano ancora aperte. E abbiamo fiducia completa nell’operato della magistratura», dice l’avvocato Gentile.
Il legale sembra essere convinto di una matrice chiara: «Quello che ha decretato la morte di Maria Chindamo è un tribunale clandestino di matrice vendicativa». A distanza di sei anni, però, la magistratura non è ancora riuscita a venirne a capo: «Sembra che tutto sia in una fase di stallo perché non vi sono molte tracce e poche testimonianze», commenta amaramente Angela Corica.
La famiglia di Maria Chindamo
E, allora, non è affatto casuale il luogo scelto per il sit-in odierno. Un’ulteriore occasione per non dimenticare Maria e per non dimenticare di chiedere, di pretendere giustizia. Il fratello di Maria Chindamo, Vincenzo, e i figli della donna, Federica, Vincenzino e Letizia, in tutti questi anni non hanno mai smesso di ricercare la verità.
«È una ferita che non si rimargina per la famiglia Chindamo, ma è una ferita nel tessuto sociale di questo territorio, un’infamia che dev’essere capita, attraversata e punita», dice l’avvocato Gentile. Dal canto suo, il fratello di Maria, Vincenzo, non molla: «Fin quando sarò presente il 6 maggio, significa che avrò fiducia e speranza».