Era il 2006. In quell’anno recensivo su Diario della settimana il primo romanzo scritto da Marc Augé. L’antropologo e pensatore francese era già noto in tutto il mondo per il successo del suo libro più famoso, quello sui non luoghi. Non un saggio dei suoi più fondamentali quindi, ma un’opera di narrativa, apparentemente eccentrica. Una storia anarchica e antiretorica, lieve e profonda, intessuta d’ombre, gentile e libertaria, come era lui. Il libro fu tradotto e pubblicato in Italia da Bollati Boringhieri (2005). Si intitolava La madre di Arthur. Era un romanzo teso come un noir che in realtà era un apologo sulla libertà e l’immaginazione, temi molto cari e sfondo ideale di tutto il pensiero di Augé.

L’amico (non) ritrovato
Vi si raccontava di un antropologo parigino scapolo impenitente e in crisi col proprio lavoro, con i viaggi, le relazioni, la vita quotidiana – Jean, lo stesso Augé – che cerca ad un certo punto di risalire alle ragioni dell’intricata sparizione di Nicholas. Nicholas è suo amico dall’infanzia ed è scomparso. Docente universitario come lui, alter-ego e compagno di lotte politiche giovanili, Nicholas fa perdere le sue tracce in una fuga improvvisa e misteriosa come quella di Rimbaud in Africa. Jean si mette allora sulle poche impronte lasciate in giro dall’amico, convinto che il suo «complice di sempre» gli abbia intenzionalmente consegnato degli indizi da decifrare.
Marc Augé, il cui talento letterario e narrativo era già godibile nei suoi testi più noti, assumeva in quel libro forme più originali e persuasive, fuori dal classico armamentario di servizio del lessico oggettivo proprio della scrittura argomentativa da studioso sul campo. Dal saggio al romanzo, dall’analisi al plot, è il salto di genere che Augè compie con gustoso e partecipato divertimento. L’amico Nicholas, acuto studioso di Rimbaud e autore di un’eterodossa quanto misconosciuta biografia del poeta, decide improvvisamente e senza apparenti ragioni di non dare più notizie di sé alla moglie Isabelle e alla signora Duprez, la tirannica madre di lui. La moglie allarmata si rivolge a Jean, ex sessantottino, libertino, ex docente universitario di etnografia, amico e complice del marito, perché la aiuti a ritrovare Nicholas.

Un’odissea minore tra aeroporti e metropolitane
La madre di Nicholas indispettita dalla fuga del figlio fornisce a Jean la traccia di pochi indizi criptici che orientano le ricerche lontano da Parigi, verso l’amore per un’altra donna e una seconda vita in un eden caraibico. Inizia così una sorta di Chi l’ha visto? la cui trama gialla si aggrappa agli specchi simbolici di una realtà diffratta, tra chiose autobiografiche e bizzarrie che intrecciano le ipotesi sulla fuga di Jean a un ricalco della spericolata biografia di Rimbaud.
Ruminata nel ventre surmoderno di una Parigi che appare agli occhi dei suoi protagonisti una metropoli ormai troppo ovvia per essere vera, e che invece Augè sa raccontare ancora con crudele e svagato acume antropologico, la fuga dell’amico apre sulla realtà uno sguardo a giro d’orizzonte. Jean si sposta avanti e a ritroso. È l’occasione per ricapitolare le proprie vite, mescolate alla quotidianità etnografica di un’odissea minore che si compie tra aeroporti e metropolitane, facce e incontri interrogativi, in mezzo a periferie e location turistiche colte nella banale e smagata visione di un contemporaneo anodino e dislocato.
In fuga con Rimbaud
La storia ordita da Augè resta leggera e narrata con stile e abilità. Mantiene nel suo sviluppo un profilo volutamente basso e antiretorico attraversato da un’ironia lieve e da uno spleen amarognolo, senza però rinunciare a colpi di scena e capovolgimenti di prospettiva piacevoli e imprevedibilmente letterari. La storia ancora una volta si chiarifica altrove, in un viaggio, esperienza chiave della scoperta di sé, ultima frontiera intima della lucida teoresi di un Augé che si immerge nella solitudine affollata del mondo globalizzato. La verità sulla sorte dell’amico cercato da Jean ritorna in luce rivelando una condizione sgradevole e spiazzante: «Rimbaud non ha mai smesso di fuggire, di scappare».
Perché scappava Rimbaud? E perché scappa Nicolas?, l’amico-ombra di Jean, alter ego vicario dell’Augé narratore che ne segue le mosse? La domanda vale per tutti e la risposta e di quelle che oggi ci fanno problema: per evadere dalla “mediocrità soddisfatta” e dall’ipocrisia di un “eterno presente” senza più bellezza, senza speranze e senza miti. È già qui il succo anarcoide e sulfureo dell’etnografia del sé di cui parlava l’Augé di questi sui ultimi tempi di eclissi. Fine della società post-moderna, avvento del relativismo e della società “senza finalità”. Non resta che tagliare la corda come ha fatto Nicholas, sottrarsi, scompaginare i piani, sfuggire al conformismo, come in un verso araldico di Rimbaud: “Ho avuto ragione in tutti i miei sdegni, poiché io evado! Evado!”.

Marc Augé contro ogni conformismo
Con questo apologo Augé sembra dirci che brancoliamo ormai nella confusione, nel caos e nel pericolo del post-tutto. Neanche gli antropologi sanno più che pesci pigliare. Il diritto alla diserzione amorosa, l’altrove (persino l’esotico volgare dei turismi di massa post-tsunami) sono forse l’ultima frontiera che resta per immaginarci diversi da un mondo oscuro e «de-realizzato», avvolto da quell’angoscia «apparentemente priva di oggetto» che avvelena il nostro senso del tempo.
Il rimedio è uno solo, etico: «Strappati al collante della storia, che ti coinvolge in azioni cretine o cruente, menzogne, apparenze, sproloqui». Anche se in fondo «non è possibile sfuggire alle proprie origini e tutto sommato è più facile allontanarsi fisicamente che col pensiero». Ma resta sempre la libertà, la scelta estrema: «Una volta messa la propria vita a distanza… ritirarsi, assentarsi». Contro ogni conformismo: «Si doveva, si deve essere screanzati. Senza delicatezza. E scappare. Scappare via, sparire, rimanere lì forse, non tanto distante, ma invisibile, testimone sarcastico e stupito della propria scomparsa».
Etnofiction
In questo libro divertente e pensoso l’antropologo si trasforma in un autore narrativamente e umanamente atipico. Augé infatti smesso armamentario di servizio dello studioso sul campo e il lessico depurato dei taccuini di ricerca, con questo libro, aggiungendo più gusto di verità e il suo amore per il paradosso, ha saputo testimoniare in altro modo la perdita di predittività delle scienze umane e smonta dal di dentro le argomentazioni presuntamente oggettive e non falsificabili dell’antropologia classica. Augé ha coniato per questo suo modo di raccontare il termine di etnofiction, per definire le narrazioni ibride come quelle apparse successivamente in Diario di un senza fissa dimora e La Guerra dei sogni. Esercizi di etno-fiction.

Il reale senza reality
Augè insieme a pochissimi altri grandi francesi, pensatori e scrittori eretici, come Victor Segalen, Michel Leiris e lo stesso Levi Strauss di Tristi Tropici, ha saputo a suo modo rinnovare la cifra di un genere ibridando sapientemente antropologia e letteratura. Ci lascia un narrare con metodo etnografico che affascina per intelligenza e sapore di verità, distante anni luce dal compiaciuto e ruffiano egotismo bellettrista di certi pensatori nostrani.
Non resta dunque che raccontare. Ciò ci rende felici, come spesso accade, o infelici, succede sempre anche questo; ma raccontare è rifare la traccia umana di qualcosa che resiste e che regge come un fatto che non sopporta di essere ridotto a interpretazione. Come un reale che non ha voglia di svaporare in reality. «Oggi è grazie alla mescolanza dei generi che passa il consenso alla schiavitù».
Ma questa non è più certamente un’etnofiction. Come profetiche e umanissime restano altre parole che Augé consegnava a questo suo libro confessione: «Anch’io ho paura… Capita che un nonnulla – una parola, un gesto – scateni uno stato di allerta, un’attesa tanto più angosciante quanto più è apparentemente priva d’oggetto».
L’intera parabola percorsa da Marc Augé è stata illuminata da questa sua “disubbidienza” intellettuale trasformatasi via via anche in lezione civile. Per indicare infine l’antidoto non nel primato di una qualche scienza, ma in una sensibilità culturale neo-illuminista, che riarma il pensiero libertario, l’arte e la poesia contro il primato delle cosmotecnologie, contro una condizione che vede l’individuo e la sua libertà sottomesse e soccombenti in una società caratterizzata dall’eccesso, dal caos, dal pericolo, in un mondo ormai quasi del tutto «de-realizzato». Avvolto da quell’angoscia «apparentemente priva di oggetto» che avvelena il nostro senso del tempo.
In Calabria con Marc Augé
Per me che ho avuto l’onore di conoscerlo e di ottenere col mio lavoro le sue attenzioni di studioso e di amico, Marc Augé è stato un maestro insuperato. Non solo come etnografo e antropologo, come narratore anarcoide e controcorrente di storie umane lievi e profonde. Ma anche, e non certo secondariamente, come persona. Un uomo indimenticabile, sempre discreto, generoso, ironico, curioso e gentile. Scrisse per un mio libro una prefazione, un contributo al mio lavoro di studioso che per me fu e resta un riconoscimento sbalorditivo per generosità e acume critico. Fui due volte sua guida per altrettanti memorabili viaggi per convegni e scorribande etnografiche, immersioni divertentissime e profonde che facemmo insieme, in auto, sulle strade e sui luoghi della Calabria.
Ora che è mancato, a distanza di anni, considerata la fuffa parascientifica e paraletteraria che circola oggi da queste parti, consiglio a maggior ragione una attenta rilettura di ogni suo libro e contributo intellettuale. Tutto il suo immenso lascito culturale, filosofico e scientifico è una miniera di intelligenza e originalità di pensiero, un patrimonio da compitare scrupolosamente. Ogni suo scritto è effetto e conseguenza di una caratura intellettuale assoluta, fuori dell’ordinario, che è caratteristica tipica della genialità unita alla più autentica disposizione umana. La stessa che illumina quel suo primo eretico romanzo, così penetrante e appassionato di umanità. Solo i grandi come lui hanno avuto l’umiltà di scrivere senza citarsi e la grandezza di saper rimanere dietro le parole.