Mancinismi: Giacomo e la legge dei sindaci

Trent'anni dall'elezione diretta dei primi cittadini e dalla vittoria del leone socialista. La destra che fu al suo fianco, i rapporti con gli ex comunisti e il contesto politico e sociale nel dialogo polifonico organizzato dal Club Telesio

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Trent’anni dall’elezione diretta dei sindaci e di Giacomo Mancini vittorioso a Cosenza. Il leone socialista cambiò in meglio la sua città, vinse anche con i voti della destra, fu avversato e subìto apertamente o meno nel corso degli anni da una larga parte degli eredi locali del Pci in un rapporto di reciproca diffidenza. Al di là dei distinguo, dei però, dei forse, questo elemento è difficile da mettere in discussione. Argia Morcavallo, dirigente del Pds di allora – ha ricordato quel periodo con estrema lucidità: «Ho fatto la guerra a Giacomo». Poi arrivò la cosa 2 di Dalema sancendo l’alleanza delle sinistre. Le cose cambiarono, ma fino a che punto?
La guerra all’ex ministro e segretario del Psi secondo Saverio Greco – giovane socialista nell’agone di Palazzo dei bruzi – non è mai finita. Con gli ex comunisti «sempre pronti a farlo fuori».

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Giacomo Mancini

Il ruolo di Martorelli

L’iniziativa del Club Telesio ha riannodato i fili di quella stagione politica e umana. A dirigere le danze il giornalista Antolivio Perfetti che di quella candidatura manciniana fu uno dei più attivi promotori e sostenitori. Perfetti ha svelato il ruolo di una figura storica del Pci come Martorelli nel countdown che portò alla presentazione della candidatura di Giacomo.
Mancini ebbe il fiuto di cavalcare la nuova legge che sanciva l’elezione diretta dei sindaci. Enzo Paolini – allora giovane protagonista di quella avventura amministrativa e politica – ha messo in guardia da facili entusiasmi sulla semplificazione come unico strumento per arginare la poca governabilità: «L’elezione di Mancini fu straordinaria, ma quella legge non ha mai funzionato».

E oggi con l’accelerazione della maggioranza parlamentare sul premierato si insinua nuovamente il fantasma della semplificazione a tutti i costi e del decisionismo senza contrappesi. Paolini lo ha evidenziato cogliendo lo spirito e i rischi di certa ingegneria istituzionale all’italiana. Di parere contrario è stato Mario Oliverio, ex presidente della Regione Calabria: «L’elezione diretta del sindaco è stata una scelta importante e giusta, rompendo l’instabilità politica di prassi prima del 1993». Su Mancini ha aggiunto un aneddoto personale. Il primo giorno da parlamentare telefonò all’ex segretario del Psi, dicendo: «Quanto si sente la tua assenza qui alla Camera». Ha aggiunto: «Mancini si commosse».

Mancini e l’importanza del contesto

Serviva uno storico rappresentante della Democrazia Cristiana come Pierino Rende per uscire un po’ fuori dal coro della laudatio totalizzante, in questo caso manciniana, di certe ricorrenze: «Non amo queste celebrazioni, si scade sempre nella retorica». Come dargli torto. L’ex parlamentare riporta il discorso sull’attualità della città unica, sull’eredità manciniane che ne hanno aperto la discussione. Ha ricordato «Il contributo del piano Vittorini con la trasformazione di via Popilia» e gli sforzi per abbattere il muro centro-periferia. Un muro che è esistito davvero. Di mattoni e cemento.

La conquista di Palazzo dei Bruzi da parte di Mancini è preceduta da un «contesto caotico», sullo sfondo di un’Italia travolta dal ciclone Tangentopoli. La questione giudiziaria, di altra natura rispetto ai garofani al Nord, lambì anche Giacomo che fu poi assolto. Paride Leporace, giornalista che in quel 1993 capeggiava la lista Ciroma, l’ha citata e poi ha spiegato in poche battute il meltin’g pot elettorale messo in piedi dal leone socialista: «Un civismo spinto al massimo, dentro c’erano preti, periferie e la destra estrema». Ne avrebbe parlato Arnaldo Golletti di quella destra, ma ieri non era al tavolo dei relatori seppur presente tra i nomi del manifesto.

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Nipote e nonno: Giacomo Mancini fa un selfie con la statua dello statista socialista (foto A. Bombini)

«La destra non fu determinante»

Giacomo Mancini (il nipote del leone socialista), ex parlamentare e assessore regionale, ha contestato questa versione dei fatti: «Uno degli animatori di quella lista era Pino Tursi Prato e poi c’era qualcuno collocato a destra». Non furono così determinanti come in tanti nella sua città continuano a ripetere, appunto, da 30 anni? A suo parere no. Nel suo intervento non poteva mancare un accenno alla vicenda giudiziaria che investì suo nonno in una serata in cui sul contesto politico e sociale di quegli anni si sono spese tante parole. Mancavano all’appello le parole di un altro socialista che ha recitato un ruolo importante nello scacchiere politico: Sandro Principe. Peccato. Il suo punto di vista avrebbe ampliato il racconto dei vari mancinismi evocati a piazza Parrasio.

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