«Nessuno ha spento il fuoco. Si è spento da solo, quando non c’era più niente da bruciare». Pietro e Nino sono nati a San Lorenzo, 150 abitanti appollaiati a 800 metri d’altezza sul versante jonico d’Aspromonte. Nell’ultima settimana hanno visto, impotenti, la loro montagna bruciare. Ettari e ettari di castagni, pini (zappini li chiamano da queste parti), querce, ulivi, abeti.
Zio e nipote divorati dalle fiamme
Le fiamme si sono mangiate tutto, scendendo e risalendo i costoni delle montagne fino a sfiorare quota 1200, a due spanne dalle foreste di faggi e minacciando da vicino anche i borghi di Roccaforte del Greco, Bagaladi e Roghudi. È qui, nella valle che aggira il paese e ridiscende verso il mare, che si sono registrate le prime due vittime dell’estate degli incendi. Cercavano di mettere in salvo il loro uliveto: sono morti a pochi metri di distanza, zia e nipote, sorpresi dalle fiamme nel cuore grecanico del parco d’Aspromonte.
A Santa Maria, piccola frazione appena fuori dal centro abitato, le fiamme hanno annerito i muri di due case distruggendo un deposito di legna e un paio di mezzi agricoli: «Qualche settimana fa il proprietario di quel capanno è morto per essersi ribaltato con il trattore mentre ripuliva il suo fondo, ora il fuoco ha fatto il resto» racconta Nino Pellicanò, cinquantenne che da San Lorenzo non si è mai mosso e che le montagne le conosce come le sue tasche, mentre la strada comincia a salire e il panorama cambia in modo radicale.
Gi animali non hanno avuto scampo
Quello che sorprende è il silenzio. Un silenzio irreale coperto solo dal borbottio del pandino 4×4 che si arrampica sulla terra nuda. Non ci sono più uccelli a sorvolare le cime di questo pezzo di montagna spogliato di vita. Solo corvi, a decine: volano bassi e banchettano con i resti degli animali che non sono riusciti a scappare dalle fiamme. «Tassi, faine, scoiattoli, martore: i mammiferi più piccoli e più lenti non hanno avuto scampo ma sono morti anche cinghiali, volpi e lepri. Gli animali sono stati accerchiati dal fuoco e confusi dal fumo, non avevano scampo». È quanto racconta Pietro Luca, poco più di 30 anni, una laurea in scienze forestali in tasca e un lavoro da tecnico dei computer in Friuli, 1400 km dalle sue montagne.
Il rogo risparmia solo la vecchia Lancia del medico
La stradina risale il fianco occidentale della montagna e i danni del fuoco diventano sempre più evidenti. Scheletri di pini marittimi anneriti, carcasse di quelle che erano state ginestre: il fuoco ha attaccato duro, muovendosi su più fronti e rendendo vano anche il lavoro delle squadre dei vigili del fuoco e i lanci del canadair «che nei primi due giorni di incendio comunque non si è visto», dice ancora Nino.
Sulla cima di Peripoli, c’è una piccola chiesa dai muri scrostati. Dentro, oltre alla lapide che ricorda la figura del vecchio medico condotto del paese a cui la chiesa è dedicata, c’è una vecchia Lancia Flavia. L’auto è parcheggiata dietro l’altare. La comprarono i cittadini di San Lorenzo al loro dottore che da quel giorno non dovette più andare a fare le visite a piedi e lì, accanto al suo ex padrone, è stata seppellita. Sono le uniche cose rimaste integre su questo cucuzzolo: la radura tra gli “zappini” in cui è stata costruita l’ha salvata dalle fiamme, il resto è terra bruciata su cui si affacciano le altre cime della montagna ormai spogliata dal fuoco.
La pinete spazzata via
Risalendo verso punta d’Atò, oltre i mille metri di quota, l’intera pineta che ricopriva la cima della montagna è stata letteralmente spazzata via. Qui le temperature hanno raggiunto picchi così alti che anche la terra sembra essersi liquefatta e anche muoversi a piedi diventa complicato. La stradina si inerpica tra migliaia di tronchi distrutti dal fuoco e sdraiati sul terreno molle.
«Questi alberi tenevano in piedi la montagna – ci dice Nino, che con il parco d’Aspromonte in passato si è trovato anche a collaborare – per capire l’entità della tragedia che ci ha colpito basterà aspettare le prime piogge e contare i danni che si lasceranno dietro». «La mia paura è che nessuno raccoglierà quei tronchi – gli fa eco amaramente il giovane agronomo forestale – e quando il sottobosco ricrescerà e scoppierà un nuovo incendio, quei tronchi anneriti saranno ulteriore combustibile per la prossima tragedia».
L’emblema del dissesto idrogeologico
La strada sterrata riprende a salire mostrando vecchie armacere, muri a secco fino a ieri nascosti dalla rigogliosità della montagna. Sopra di esse una foresta di castagni, i tronchi anneriti, le chiome devastate dalle fiamme: «L’unica speranza è che qualche fronda, tra quelle in cima, sia rimasta integra. Solo così le piante potrebbero riprendersi, ma la situazione è davvero drammatica, è andato tutto distrutto». Nel silenzio artificiale di questa parte di Aspromonte ferito, rimbomba il rumore di un elicottero antincendio che vola verso i versanti più settentrionali della montagna dove ancora insiste qualche focolaio. Si allontana sorvolando la frana di Colella, diventata emblema del dissesto idrogeologico calabrese e simbolo stesso dello “sfasciume pendulo” che rischia di diventare l’Aspromonte.