Questa non è solo l’estate degli incendi appiccati a comando e dell’olocausto rituale e paramafioso di boschi e foreste. Come se non bastasse. Ci sono anche le monnezze, le discariche a cielo aperto, i cumuli di rifiuti urbani abbandonati per mare e monti a fermentare sotto il sole per mesi, anni. Un’esplosione di scarti dispersi e seminati ovunque da mano umana per paesi, città e strade più o meno trafficate. Polluzione nociva da cui non si salvano affatto boschi, riserve, aree verdi, parchi nazionali. Anzi. Succede specie quando vanno tutti in vacanza, e i servizi ai cittadini sotto la voce Tari latitano.
La monnezza non sparisce mai
Le spazzature oramai sono presenze incombenti, entità materiali e simboliche, “oggetti” che non spariscono dal nostro paesaggio neanche quando i servizi migliorano, la raccolta differenziata viene messa in opera correttamente. Le monnezze restano, troppe e insolubili, anche nei casi migliori di civismo e buone prassi. Perché non è solo un problema di politiche di smaltimento arretrate, di discariche e inceneritori che dominano le scelte delle politiche regionali sul ciclo dei rifiuti. E allora? Il guaio è la prevalenza delle monnezze abbandonate negli spazi pubblici, le discariche fuori controllo, la presenza macrofisica e microfisica di resti ingombranti, rimasugli, avanzi. Buste di spazzatura e rifiuti urbani si impongono così, malgrado le buone eccezioni, come nuovo e significativo oggetto-monumento-documento: sono un carattere del paesaggio e dello spazio pubblico contemporaneo in Calabria. Stanno lì, sotto gli occhi di tutti, e ci interrogano. Su cosa? Un fenomeno esorbitante come questo non può non dirci qualcosa sul senso civico e le mentalità diffuse tra i nostri corregionali.

Siamo noi i colpevoli
Come per gli incendi boschivi, gli operatori di questi scempi ambientali non sono gli altri. Non sono soggetti estranei o truppe d’occupazione, ma nostri concittadini: autoctoni, indigeni, calabresi doc. Sono i nostri vicini di casa, siamo noi, nessuno si senta escluso. La pantopologia delle monnezze non risparmia un angolo che sia uno della regione: paesi, province o città metropolitane. La Calabria espone le sue scorie e suoi scarti ingombranti, polverosi, sporchi e olezzanti, ovunque a cielo aperto. Come fossero le installazioni di un artistico museo en plein air di Trash Art. Ma non lo sono, e non lo diventeranno. Sono altro.
Produciamo più monnezza di una metropoli asiatica
Su un piano di realtà viene seriamente da chiedersi. Come sia capace la regione dichiaratamente più povera, disamministrata e più disperata d’Europa per la disoccupazione e l’emigrazione crescente, quella con la miseria preindustriale dei suoi redditi medi e i sostegni a pieni mani dei redditi di cittadinanza, ad accumulare in proprio, per poi e sparpagliarla ovunque, tanta monnezza superconsumista? Già, perché la monnezza significa una cosa sola: eccesso di consumi, di beni superflui, di cibo in eccesso, di plastica, di imballi e di tutto il resto. Insomma è prova flagrante di sovrabbondanza, dismisura, eccedenza. Lo spirito del capitalismo che si manifesta in rumenta al 38° parallelo. Perché quello che si butta via e che si mette disinvoltamente fuori, prima si acquista nei santuari del consumo di massa: supermercati, iper, centri commerciali. La Grande distribuzione organizzata in Calabria ha i suoi hub del consumismo piazzati ovunque e per tutti i gusti. Poi le merci che passano dalla GDO prima di finire in giro nei sacchetti di plastica scaraventati ovunque fuori la porta di casa, stanno dentro le case dei calabresi, quelle di paesi e città, al mare o in montagna: riempiono i frigoriferi, le dispense, i ripostigli, gli armadi. Ecco un altro dei misteri ingloriosi che ben rappresentano lo stigma autoinflitto della società calabrese contemporanea. Una società di poveri che consuma in eccesso. E fa più monnezza di una metropoli asiatica.

I rifiuti sono un oggetto reale e simbolico
Come antropologo che lavora sul campo temo che in questa regione si debba considerare l’evidente e ormai annosa supremazia degli scarti e degli ingombri inquinanti abbandonati nei luoghi pubblici, con le irreparabili conseguenze dei danni procurati su paesaggio antropico e natura (insieme alle cattive abitudini civiche correlate), come un “oggetto reale” che è parte del progetto politico (consapevole, sempre meno inconsapevole) dello spazio pubblico realizzato, e quindi come documento della dimensione etica, culturale e simbolica condivisa e praticata nei comportamenti dalla media larga dei cittadini di questa regione. Le monnezze oggi sono lo status symbol distorto e socialmente malvagio del raggiunto benessere e dell’iperconsumismo democraticamente distribuito tra classi e gruppi sociali. Da sobri e parchi che furono quando erano poveri, nel 2021, in piena emergenza globale pandemica e climatica, i calabresi-medi ribadiscono oggi spargendo rifiuti e monnezze dove capita, e a colpi di spazzature allegramente scaraventate dai finestrini delle auto in corsa, una sorta di posizionamento sociale “selvaggio” che si dichiara nelle forme riottose e sprezzanti di un diffuso respingimento di codici di condotta e prassi condivise che sono fondamento di ogni elementare regola civica e di convivenza responsabile tra i cittadini.
L’arte del rifiuto
Da documento-status symbol del raggiunto benessere, i resti le spazzature abbandonate e le scorie accumulate negli spazi pubblici per via di questa distorsione divengono un oggetto-monumento che manifesta simbolicamente il problema indigesto che più in generale la modernità, con tutto il corteo delle sue flagranti disfunzioni, in Calabria configura. L’esorbitanza di resti, scarti e monnezze diviene così esibizione drogata e oscena dei nuovi status symbol del consumo fine a se stesso. Questa sorta di esibizione abborracciata che si situa tra le installazioni di land art, l’insulto sistematico all’ambiente e l’arte popolare dell’accumulo, ha conquistato in termini di maggiore evidenza il luogo esibitivo per eccellenza di questa regione: la strada, ovvero il nervo più lungo di tutto lo spazio pubblico, lo spazio pubblico e infrastrutturale che collega e connette i diversi territori e omologa tutti i luoghi del paesaggio vecchio e nuovo di questa regione.
Dentro pulito, fuori sporcizia e cumuli di rifiuti
Dalla casa pulita alla strada sporca in Calabria il passo è breve. Dentro lo spazio privato lindo e scintillante di detersivi e igienizzanti, e fuori quello pubblico oppresso dai cumuli di scarti, buste di spazzatura e congerie di rifiuti. Ecco servita un’altra schizofrenia sociale, dopo la malvagità altrettanto sociale degli incendi boschivi. Dentro puliti, fuori sporchi. “Robb’a i tutti jettala allu jjum’e” non sostiene un forse un vecchio adagio popolare? La necessaria riconsiderazione della strada e dei luoghi dello scarto come condensatori di tracce e di informazioni sociali e antropologiche problematiche ma preziose, è una conseguenza dell’entropia scaturita dalla crescita incontrollata dei consumi, dall’intreccio irrisolto nella complessità dei processi di modernizzazione e dalla spinta crescente all’urbanizzazione che hanno costruito la realtà di questa regione negli ultimi cinquant’anni.

Non ci resta che ragionare sul riuso
Sono circostanze così pesantemente reali e cariche di conseguenze che dovrebbero indurre la Calabria a ragionare collettivamente non solo su una nuova coscienza del riuso e degli orientamenti da adottare nelle politiche regionali del ciclo dei rifiuti, ma anche a riflettere su una nuova immaginazione progettuale, in grado di ridisegnare il ruolo degli spazi pubblici e dei beni comuni per città, paesi, aree naturali e trasporti più adeguati alla geografia del contemporaneo di questa regione. Considerando lo scarto come uno degli oggetti del progetto politico e civico dello spazio pubblico a venire, e non come destino. Sublimare lo scarto fino a renderlo oggetto di trasformazione dello spazio pubblico contemporanea è ovunque il progetto delle città contemporaneo che investono intelligenza e applicano risorse su questi temi. Per ora, invece, una enorme rimozione culturale e simbolica (oltre che materiale) giace sotto i cumuli di rifiuti e le discariche incontrollate che costellano a cielo aperto il paesaggio e le strade della Calabria di adesso. Questo resto indigesto e ingombrante, questo nuovo oggetto sociale che si insedia nelle spazzature abbandonate, visibile ma oscuro, che si accumula e avanza come un inarrestabile blob fuori dalle porte di casa e per strada ai lati della nostra vita pubblica, siamo noi stessi. Un mucchio selvaggio di segnali e di informazioni utili per lo studio dell’evoluzione della società, della città e del territorio, della regione che siamo e di quella che come cittadini vogliamo costruire.
L’anarchia della monezza come sfregio
Il nostro irrisolto rapporto con la modernità passa dalla spazzatura forse più che dai libri. Esso costituisce il dato esperienziale e di una nuova drammaturgia umana e sociale che non trova per ora forme di rappresentazione che non siano quelle prive di forma ma cariche di evidenza, del rifiuto irredento. L’anarchia dello sfregio tale e quale.
Occorrerebbe invece rapportarsi al tema dello scarto affrontandone il geroglifico antropologico e culturale che vi resta insediato. Ciò che in esso mistifica e semplifica i caratteri identitari delle più antiche resistenze e riottosità etniche dei calabri mescolandole al conformismo iperconsumista di oggi, decostruendo così le ragioni di quel posizionamento “selvaggio”, a cui prima alludevo, per venirne finalmente a capo.
Lo stato di natura in Calabria
C’è una pagina sorprendente di un grande filosofo del secolo dei lumi che in un apologo sulla libertà metteva in valore il carattere esotico e primordiale, lo stato di natura dei fieri calabresi di un tempo: “… Tutte le istituzioni politiche, civili e religiose. Esaminatele a fondo: o io mi sbaglio terribilmente, oppure in esse vedrete la specie umana sottomessa di secolo in secolo al giogo che un pugno di furfanti ha voluto imporle…E i Calabresi sono forse gli unici sui quali le lusinghe dei legislatori non hanno avuto effetto.
A – E questa anarchia della Calabria vi piace?
B – Mi appello all’esperienza, e scommetto che nella loro barbarie ci sono meno vizi che nella nostra civiltà. Le tante nostre piccole scelleratezze equivalgono all’atrocità dei loro grandi crimini di cui si mena tanto scandalo. Io vedo gli uomini non civilizzati come una grande riserva di forze sparse e isolate. Senza dubbio potrà accadere che qualcuna di queste forze si scontri con un’altra, e o l’una o l’altra andrà in pezzi, o magari accadrà a entrambe…, e in questa macchina chiamata società tutte le forze furono messe in azione, pressate incessantemente ad agire e a reagire l’una contro l’altra, tanto che se ne frantumarono di più in un giorno nello Stato retto da leggi che in un anno nell’anarchia dello stato di natura!..
A – Dunque, voi preferite lo stato di natura bruto e selvaggio?
B – In verità non oserei dirlo, ma so che si è visto spesso l’uomo di città spogliarsi e tornare alla foresta, mentre non si è mai visto l’uomo della foresta vestirsi e andare a vivere in città”.
Il viaggio di Monsieur de Bougainville e quella certa anarchia
Certo, siamo in tempi post-illuministici e lo scetticismo è di moda. Nessuno di noi oggi vive nelle foreste silane e qualche comodità, come mostrano le montagne di spazzatura che sparpagliamo ovunque, nel frattempo ce la siamo pure guadagnata. Questa pagina del passato però stupisce e interroga alla stregua di un autorevole paradosso. Colpisce, non solo perché riprende il mito irredentista del calabrese “tutto natura”. Un “buon selvaggio” che sopravvive in una sorta di riserva indiana sul bordo estremo della vecchia Europa, refrattario alle regole della società e dello stato moderno: “I Calabresi sono forse gli unici sui quali le lusinghe dei legislatori non hanno avuto effetto”. Dice, anche, purtroppo, qualcosa di oggi. La pagina, sconosciuta ai più, ruffiana e bellissima, compare in un dialogo immaginario che si trova in un’opera minore, il Supplemento al viaggio di Monsieur de Bougainville del grande Diderot, uno dei padri dell’Illuminismo. Un tempo lo stato di natura era pieno di speranze. La storia no. E noi siamo ora più che mai dentro la storia. Quella di adesso. Davanti a tutte le nostre monnezze per strada chi può più dire dei calabresi di oggi che “nella loro barbarie ci sono meno vizi che nella nostra civiltà”?