Sporco fascista, golpista, pericolo per la democrazia: questo è Junio Valerio Borghese secondo una lettura molto diffusa, di sicuro maggioritaria.
Invece, per altri Borghese è stato un grande eroe, coinvolto in giochi di potere pericolosi e spericolati per amor di patria o in seguito a richieste impossibili da rifiutare.
Ma questa divisione, scontata in un dibattito storico che continua a dividersi tra destra e sinistra (quindi tra ammiratori e detrattori, entrambi a oltranza), non aiuta a rispondere a una domanda.
Eccola: perché Borghese prese la guida di un golpe che forse lui stesso per primo sapeva impossibile?
Antefatto: le bombe e le stragi
Il tentato golpe dell’Immacolata, svoltosi appunto nella notte tra il 7 e l’8 dicembre del 1970, per alcuni è il primo tentativo di capitalizzare le tensioni sociali che scuotono l’Italia all’inizio di quel decennio.
Il suo antefatto più importante è la strage di piazza Fontana, avvenuta poco meno di un anno prima (12 dicembre 1969). Questa strage fu preceduta e accompagnata da attentati dinamitardi, con e senza vittime, e fu seguita da altri atti eclatanti. In particolare, dalla strage di Peteano, l’unica strage fascista rivolta contro carabinieri e militari, e dalla strage di piazza della Loggia (29 maggio 1974), dopo la quale lo stragismo di destra inizia a declinare.
A questo punto, è lecita un’altra domanda: perché un golpe così piccolo, tentato con mezzi palesemente insufficienti, di fronte a stragi così crudeli?
La X Mas tra crimini e ambiguità
Memento audere semper: questo motto, nato prima del fascismo e prima che Borghese entrasse nel vivo della sua carriera militare, è costato un brutto incidente a Enrico Montesano.
I guardiani della memoria, anziché storicizzare hanno preferito esasperare gli animi. Tant’è: la leggenda nera della X Mas resiste oltremisura, rafforzata dalla memoria dei feroci rastrellamenti e delle esecuzioni sommarie nel periodo di Salò.
Questa leggenda impedisce la storicizzazione del principe nero, passato da eroe di guerra a criminale in men che non si dica. E dunque: criminale il Borghese fascista, che fucila partigiani a raffica. Criminale anche l’Oss (Office of Strategic Services, l’antenata della Cia) e il suo capo in Italia, James Jesus Angleton, che salvarono Borghese. Criminali, infine, quei settori deviati dei servizi, civili e militari, che protessero il principe e ne sponsorizzarono il tentativo di golpe.
Possibile che sia tutto un crimine?
Tora Tora: Junio Valerio Borghese e Pansa
La recentissima ristampa di Borghese mi ha detto (Rizzoli, Milano 2022), un vecchio libro intervista di Giampaolo Pansa, consente di aprire uno spiraglio sul golpe.
Il giornalista piemontese aveva intervistato il principe il 4 dicembre 1970, cioè quattro giorni prima del tentato colpo di Stato. L’intervista uscì su La Stampa il 9 dicembre, cioè ventiquattro ore dopo l’operazione Tora Tora, di cui in quel momento il pubblico non sapeva niente.
Pansa rimase affascinato dalla lucidità e dalla schiettezza di Borghese, che sembrava tutto tranne che un golpista. Infatti, la notizia del golpe sarebbe emersa il 17 marzo del ’71, grazie a uno scoop di Paese Sera.
Riavvolgiamo il nastro: possibile che una cosa tanto grave, un pericolo per la democrazia, finisse tanto sottogamba?
C’è da dire che parecchie avvisaglie di golpe erano già emerse sulla stampa, come ha riscostruito con grande efficacia Fulvio Mazza nel suo Il Golpe Borghese (Pellegrini, Cosenza 2021). E allora: perché Borghese ha potuto agire quasi indisturbato?
Golpe Borghese: un Putch inconsistente
Nel golpe Borghese c’era tutto il cattiverio. C’era Ordine Nuovo, Avanguardia Nazionale e il Fronte Nazionale (il partito personale del principe).
Poi c’erano i Servizi e la P2. Insomma, non mancava nulla per creare il colpevole quasi perfetto: un militare fascista, potenzialmente stragista, i Servizi, per definizione deviati, e ambienti inconfessabili. E non dimentichiamo le mafie.
Peccato che tutta questa attrezzatura abbia sostenuto un golpe gestito solo da paramilitari di destra, un pugno di poliziotti, nemmeno cinquecento carabinieri più il vecchio Corpo forestale dello Stato.
C’è una cosa corretta sul golpe Borghese: non fu un conato neofascista ma un tentativo di destabilizzazione atlantista, a cui Borghese si prestò. Ergo: al principe andava bene roba sul modello portoghese, cileno o greco. Nulla di più.
Il principe non era un rivoluzionario nero ma un uomo d’ordine e un anticomunista sfegatato. E questo spiega sia la gestione di un golpe rientrato alle battute iniziali sia i legami più o meno inconfessabili, per i fascisti e per gli antifascisti.
Borghese e Licio Gelli: una relazione pericolosa
Iniziamo dalla cosa più pornografica per una certa mentalità politicamente corretta: i rapporti tra il principe e il venerabile della P2.
È noto che Gelli riuscì ad accreditarsi come campione dell’atlantismo. Più complicato il discorso per Junio Valerio Borghese. Tuttavia, sulla base dei documenti disponibili, ci sono alcune certezze.
Le espongono Jack Greene e Alessandro Massignano ne Il principe nero (Mondadori, Milano 2008): Borghese non fu un piduista ma era vicino a Gelli, che lo aveva favorito in momenti di crisi finanziaria. Ancora: sia gli ambienti dei Servizi sia gli extraparlamentari di destra erano infiltrati o condizionati dalla P2.
Il tutto ha un corollario: di Gelli si può mettere in discussione ogni cosa, tranne l’atlantismo. Quanto bastava a creare una comunione d’interessi col principe.
Borghese e la resistenza
Col principe nessuno era al sicuro: neppure i partigiani.
C’è una differenza fondamentale tra la Decima di Borghese e le milizie di Salò: la prima era un corpo autonomo, con uno statuto simile alla Legione Straniera; le altre un tentativo di creare un esercito regolare.
Questa differenza fu riconosciuta dalle corti militari del dopoguerra, che trattarono meglio i militi della X Mas rispetto agli altri repubblichini. Ma la apprezzarono anche i comandi e l’intelligence alleati, che negoziavano sottobanco più con Borghese che col resto della Rsi. Inoltre, la apprezzarono i vertici delle brigate partigiane Osoppo, cioè i partigiani bianchi, che temevano e detestavano i “garibaldini”, cioè i partigiani comunisti.
Due studiosi di vaglia, Giacomo Pacini e Giuseppe Parlato concordano su un punto: a partire dalla fine del ’44 ci furono abboccamenti tra la Decima e la Osoppo per concordare un’azione comune contro i partigiani di Tito. La proposta, avanzata dai partigiani fu fatta cadere. Non per l’antifascismo ma perché i seguaci di Borghese erano praticamente bolliti, dopo oltre un anno di guerra civile.
Ancora: Pacini parla della vicinanza, nell’immediato dopoguerra tra vari reduci della Decima e gli ex partigiani bianchi. E allude alla possibile militanza di alcuni ex marò in Gladio, che era comunque una struttura di ex partigiani.
Borghese e Israele
È il capitolo più piccante della vicenda.
Tuttavia, ci sono dei dati certi sui rapporti tra Borghese e i gruppi da cui sarebbe sorto lo Stato di Israele. A dispetto di tutto quel che era capitato prima, leggi razziali incluse.
Il partito di punta del movimento sionista era l’Irgun Zvai Leumi, un gruppo di estrema destra, che in Italia s’intese alla perfezione coi leader del nascente neofascismo (tra questi, Pino Romualdi) in nome dell’odio comune verso la Gran Bretagna.
Borghese contribuì a modo suo: mise in contatto i rappresentanti dell’Irgun col suo braccio destro Nino Buttazzoni, che nel ’46 era latitante in Vaticano.
Quest’ultimo, che non poteva esporsi, convinse i sionisti a ingaggiare due ex marò per addestrare gli incursori della futura Marina israeliana e impiegarli in funzione antibritannica. Dio stramaledica gli inglesi? Lo dicevano i fascisti, ma gli ebrei erano d’accordo. Non a caso, il corpo degli incursori della Marina israeliana si chiama XIII flottiglia. Manca solo Mas.
Borghese e la Calabria
Durante il maxiprocesso a Cosa Nostra, Luciano Liggio parlò dei suoi colloqui con Borghese in occasione dei preparativi del golpe. Le coppole siciliane, per bocca sua, declinarono l’invito.
Molti picciotti calabresi, invece, l’accolsero. Almeno fu così per il clan De Stefano.
Mafia o meno, occorre ricordare che Borghese era di casa in Calabria, grazie anche ai buoni uffici di Maria de Seta, la moglie di un altro principe nero: Valerio Pignatelli di Cerchiara, leader della resistenza fascista al Sud.
I rapporti con la ’ndrangheta, di cui all’epoca non si percepiva la pericolosità, erano una conseguenza.
Per concludere
I rapporti di Borghese con un certo estabilishment atlantista sono storicamente accertati.
Il principe era stimato dai britannici, a cui aveva dato filo da torcere in guerra, era apprezzato dagli americani e dagli israeliani. E Gelli lo teneva in considerazione. Insomma, era l’ideale pedina anticomunista.
C’è da dire che Borghese interpretò il ruolo alla grande. Anche nella curiosa ritirata finale. Cioè nel contrordine dato quando il golpe stava per entrare nel vivo.
Al riguardo, in tanti evocano complotti. Ma forse la verità è più semplice, come racconta Miguel Gotor nel suo recentissimo Generazione Settanta (Einaudi, Torino 2022).
Borghese aveva intuito che il golpe avrebbe potuto avere una sola riuscita: spaventare l’opinione pubblica e propiziare un governo autoritario di destra, che tuttavia, per prima cosa avrebbe represso proprio i “camerati”.
Il dietrofront sarebbe dovuto essenzialmente a questa preoccupazione.
Certo, se le cose stanno così, non serviva uno storico stellare come Gotor. Ma basta un regista geniale come Mario Monicelli, che nel suo Vogliamo i colonnelli (1973) racconta più o meno la stessa cosa.
Già: non c’è nulla di meglio di una commedia, per raccontare il golpe da operetta di un ex eroe in declino…