Con l’adozione dell’emendamento al Codice di autoregolamentazione della Commissione antimafia, Roberto Occhiuto ha ottenuto quattro risultati notevoli.
Il primo: ha ridimensionato la narrazione legalitaria e antimafia di Luigi de Magistris, i cui seguaci usano le espressioni “massomafia” e “massomafiosi” più di quanto non faccia un messicano con gli habanero nel chili.
Il secondo: ha prevenuto le polemiche che scoppiano a orologeria a liste chiuse o, peggio, a elezioni finite, quando iniziano di solito a girare tra i giornalisti dossier a carico di chiunque si appresti a vincere o a governare.
Il terzo: ha rigettato la palla nel campo avversario. Loro accusano gli altri di connivenze e altre pratiche poco belle? E allora che sottopongano anch’essi le proprie liste al vaglio della Commissione guidata da quel giacobino di Nicola Morra.
Il quarto, e forse per il leader azzurro più importante: ha ottenuto un controllo più stretto sulla propria coalizione.
Cronologia di un emendamento
Che sia così, ci sono pochi motivi di dubitarne, soprattutto per un dettaglio cronologico non proprio irrilevante: l’emendamento, pensato e annunciato di fatto da Occhiuto a metà luglio e proposto da Wanda Ferro, è passato all’unanimità il 5 agosto. Tuttavia, sin dalla settimana prima gli aspiranti consiglieri del centrodestra hanno ricevuto un prestampato in cui gli si chiedeva di confermare la disponibilità generica a candidarsi (cioè senza indicare liste specifiche) e, quindi, a farsi valutare da Morra & co.
Per il resto, il Codice di autoregolamentazione è immutato. La Commissione controlla se i candidati non siano stati rinviati a giudizio per reati di tipo mafioso (associazione a delinquere di stampo mafioso, concorso esterno e varie forme di corruzione elettorale legate alla criminalità organizzata), più altri crimini non necessariamente mafiosi ma collegati alle attività politica e amministrativa (corruzione, concussione, associazione a delinquere semplice e altri) o di tipo privato ma tali da rovinare la reputazione di un politico (ne è un esempio la bancarotta fraudolenta).
Severino ma non troppo
I criteri della Commissione antimafia sono più bassi rispetto a quelli della legge Severino, che per “bruciare” amministratori e rappresentanti politici richiede almeno la condanna in primo grado. In compenso, la valutazione dell’organo parlamentare è decisamente meno dura, perché non è vincolante: i partiti possono non tenerne conto e candidare lo stesso i presunti impresentabili.
Ma ciò non vuol dire che sia una supercazzola, perché le valutazioni sono pubbliche. Quindi, chi non le segue si espone al ludibrio dei cittadini.
Di sicuro Roberto Occhiuto ha capitalizzato questa logica, a dirla tutta un po’ distorta, della legalità e dell’etica pubblica. E pensare il contrario significherebbe sottovalutare la sua intelligenza politica.
L’Orlandino furioso
L’unico che ha intuito i rischi di questo gioco cinico – e potenzialmente assassino – è Orlandino Greco, il quale si è chiamato fuori. L’ex consigliere regionale oliveriano, sotto processo con le accuse di concorso esterno e di corruzione elettorale, ha dichiarato di rinunciare a candidarsi per evitare che il suo movimento – Italia del Meridione – subisse le facili strumentalizzazioni della propria condizione di imputato.
Eppure, la posizione di Greco non sarebbe incompatibile con la legge Severino. Finora, infatti, l’ex sindaco di Castrolibero non è stato condannato, i fatti contestatigli sono vecchi (risalgono a tredici anni fa) e ha incassato ottimi risultati processuali dal Riesame e dalla Cassazione.
Di padre in figlio… e in nuora
Anche altri potenziali incandidabili potrebbero candidarsi senza problemi in base alla Severino. È, per fare un esempio vistoso, il caso di Luca Morrone, figlio di Ennio, ex presidente del Consiglio comunale di Cosenza e consigliere regionale uscente.
Morrone jr è tuttora alla sbarra a Catanzaro nel processo Passepartout con l’accusa di corruzione elettorale: nel 2016 avrebbe sfiduciato il sindaco di Cosenza Mario Occhiuto in cambio di benefici politici.
A sentire i maligni, che coincidono coi beneinformati, Roberto Occhiuto non vedrebbe di buonissimo occhio il rampollo del potentato cosentino anche a causa della congiura di Palazzo dei Bruzi, che fece decadere suo fratello sei mesi prima della fine naturale del suo mandato di primo cittadino.
Tuttavia, Luca Morrone non è condannato e, a dar retta agli addetti ai lavori, potrebbe uscire senza danni dal processo, dove finora non sarebbero emersi i benefici politici ottenuti per la pugnalata al sindaco.
Ad ogni buon conto, avrebbe deciso di aggirare l’ostacolo candidando sua moglie Luciana De Francesco. Non è dato sapere se in Fdi o altrove, però, perché Morrone Jr e Orsomarso non sono quel che si dice culo e camicia (nera).
Un trattamento non proprio Gentile
Un discorso simile vale per il superbig Pino Gentile, ancora sotto processo per vicende riconducibili al suo ruolo di assessore nell’era Scopelliti.
In realtà, tutti i procedimenti che lo riguardano sono prossimi alla prescrizione. Tra essi, quello legato alla vicenda delle case popolari di Cosenza, che a suo tempo fece scalpore.
Gentile ha dalla sua un bel po’ di voti, che potrebbero tornare utili anche per le amministrative cosentine.
Ma le accuse di cui è tuttora oggetto sollevano un interrogativo delicato: che accadrebbe se Occhiuto, dietro “consiglio” della Commissione antimafia, non candidasse l’anziano leader e questi uscisse dal processo, per prescrizione o assoluzione? I casi borderline non finiscono qui.
Parenti serpenti
Visto che la Commissione antimafia non emette verdetti giudiziari ma solo valutazioni politiche, è obbligatorio qualche dubbio: come comportarsi nei confronti di chi è solo indagato oppure “vociferato” in maniera pesante?
Ancora: che accadrebbe se si consentisse la candidatura di persone solo indagate e se queste, una volta elette, venissero rinviate a giudizio? Le vicende recenti di Nicola Paris, finito in manette per concorso esterno e scambio elettorale, e di Raffaele Sainato, indagato per mafia, sono altre due bucce di banana per il centrodestra. Di sicuro non saranno ricandidati, perché le accuse sono troppo fresche e pesanti.
Ma, senza scomodare le ’ndrine reggine, emergono altri casi dubbi. Uno è Piercarlo Chiappetta, consigliere comunale di Cosenza e occhiutiano di acciaio (tra le varie, è cognato proprio di Roberto Occhiuto) e potenziale candidato della lista del presidente del centrodestra. L’altro, nello schieramento opposto, è l’oliveriano Giuseppe Aieta, consigliere regionale uscente e conteso tra l’area Pd e i Masanielli di de Magistris.
Il primo è risultato indagato per una presunta bancarotta fraudolenta. Le accuse a suo carico non sono leggerissime, visto che gli inquirenti hanno posto sotto sequestro anche beni riconducibili a lui. Il secondo è indagato per corruzione elettorale.
Nessuno dei due è rinviato a giudizio e, per elementare garantismo, si augura e entrambi di uscire illesi dalle inchieste. Ma, per ripetere la domanda retorica, che accadrebbe se fossero candidati nonostante la pesantezza delle accuse e poi, una volta eletti, finissero sotto processo?
Politica batte legalità
Il parere della Commissione antimafia è, stringi stringi, una moral suasion che rafforza la decisione di non candidare qualcuno. Ma questa resta comunque una decisione politica su cui, nella maggior parte dei casi, pesano altri fattori, spesso più determinanti della legalità.
Questo vale a destra come a sinistra. E vale per tutta la Calabria, dove si invoca la legalità perché ce n’è poca e si urla contro la mafia perché ce n’è troppa. E lo si fa, in entrambi i casi, per motivi politici.
I cittadini calabresi si avviano all’election day con l’ennesimo convitato di pietra: la Commissione di Nicola Morra, a cui toccherà ridisegnare la mappa politica per evitare che lo faccia con più numeri e capacità qualche Procura, antimafia e non.
E pazienza se questa attività si riveli funzionale soprattutto a disegni di potere ed equilibri politici: in Calabria capita anche di peggio.