Il patriarcato uccide, ma dirlo è ancora difficile.

Gino Cecchettin ospite del Dispes per parlare di violenza di genere e della Fondazione che porta il nome della figlia.

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L’aula è affollata, qualcuno si siede sui portaombrelli, alcuni rimangono in piedi, molti cercano di ascoltare dal corridoio. Ma il silenzio è totale. Il brusio della quotidianità ha lasciato spazio alle emozioni, difficili da esprimere, e alla voce pacata di Gino Cecchettin, il padre di Giulia, che in collegamento da Padova parla con gli studenti del Dispes in un incontro organizzato dallo stesso dipartimento. A guidare il dialogo è il docente di Relazioni internazionali Marco Clementi, che dà subito la parola al direttore del Dispes, Giap Parini e  poi alla  sociologa Giovanna Vingelli, Delegata Pari Opportunità e Diversità, ben presto subentrano i numerosi interventi, in un botta e risposta continuo fatto di riflessioni, ascolto reciproco e un forte carico emotivo.

Un’aula piena di persone ed emozioni

Tra gli studenti qualcuno si scusa per la voce tremante, o anche solo per aver posto una domanda. Ci si sente inopportuni, indelicati, si sente di non avere il diritto di chiedere niente a un uomo le cui sofferenze sono indescrivibili e che tuttavia offre tutta la sua disponibilità a questo dialogo intenso ed emozionante. Parlare è difficile, ma si prova a farlo lo stesso e dal confronto emergono riflessioni preziose. Tutto ha origine con Giulia, una ragazza di 22 anni la cui storia è diventata a noi tragicamente nota l’anno scorso, quando il suo ex ragazzo la uccise. La sua vita ci viene restituita oggi dalle parole amorevoli di suo padre, che la ricorda come una ragazza generosa, una fonte di gioia per i suoi cari. Gino racconta di aver imparato molto da lei. Forse è proprio nel ricordo della capacità di Giulia di riconoscere il lato bello delle cose, che lui trova la forza di definirsi una persona fortunata. Come può essere fortunato un uomo che ha perso sua figlia, poco dopo aver perso sua moglie? Lo spiega lui stesso. Dice: “ho vissuto 22 anni con Giulia”, un regalo che rende sopportabile vivere col dolore della sua perdita.

Dal dolore la scelta di dare vita a una Fondazione

Gino è un padre affranto ma anche un uomo dotato di forza e lucidità, è concreto, razionale, consapevole del problema collettivo della violenza di genere e desideroso di fare del bene. Il dolore, dice, lo accompagnerà sempre, ma rabbia e odio non vuole portarli con sé. Lo sguardo è proiettato verso il futuro. E la Fondazione Giulia Cecchettin, che come simbolo ha scelto uno dei disegni di Giulia, diventa quindi un modo per onorarne la memoria ma anche offrire sostegno alle vittime di violenza e portare avanti progetti di sensibilizzazione su tematiche di cui si parla troppo poco e spesso male. Su questo Gino è molto chiaro: per il dolore personale ha ricevuto sostegno da parte di tutti, dalle persone estranee alle cariche pubbliche, ma quando si è cercato di interrogarsi sul perché dell’accaduto è calato il silenzio. Parla di distacco istituzionale.

La pericolosa illusione che il patriarcato sia finito

“Empatizzano con la storia,” afferma “ma si ha difficoltà a condividerne le cause”. Nell’analisi del fenomeno a un certo punto la discussione si è fermata, forse perché, sostiene Gino, non esiste la reale volontà di mettere in discussione il proprio passato e l’attuale presente. Perché non illudiamoci, che il patriarcato sia finito non è altro che una lettura distorta della realtà a discapito dei fatti e delle persone che ne pagano le conseguenze ogni giorno, donne e uomini. Quando poi sono cariche istituzionali a sostenere che esso non esista, la situazione è grave, per non dire pericolosa. Lo stesso pericolo, nonché la stessa subdola negazione, si annida nella parola “mostro”. Affermare che uno stupratore sia un mostro afferma Gino, equivale a “delegare la responsabilità al singolo individuo”, mentre la violenza, soprattutto forse se violenza di genere, non è mai solo un atto personale, ma un fenomeno socioculturale. E bisogna affrontarlo in tutte le sue sfaccettature. Perché il sessismo non si conclude nei gesti, ma si costruisce e rigenera anche nelle forme di narrazione che descrivono la donna come vittima passiva e intrinsecamente colpevole. Persino le forme di prevenzione assumono connotati maschilisti, sottolinea una studentessa: si insegna alle donne come difendersi, ma non si è disposti a decostruire l’immaginario collettivo della figura e del potere maschile.

Parlare ai ragazzi di oggi che saranno gli adulti di domani

Da questo punto di vista, la Fondazione desidera impegnarsi per portare il dibattito all’interno delle scuole, assicura Gino. Una ragazza lì presente ne coglie l’importanza, sostenendo che è necessario parlare di violenza nelle università ma non sufficiente, perché “è già troppo tardi”. Azzarda poi l’ipotesi di un’educazione per adulti, mista alla preoccupazione per le voci autoritarie che minimizzano la questione di genere. Gino ha le idee chiare in proposito: i cambiamenti si mettono in atto lentamente e trasversalmente, attraverso la non violenza (che magari fa meno rumore, ma è la via più giusta ed efficace) e la tempestività: è necessario mobilitarsi da subito perché “i ragazzi di oggi sono gli adulti di domani”. E questo forse restituisce anche un po’ il senso di creare una fondazione. Non solo il desiderio e la necessità di ricordare una persona amata, ma anche e soprattutto la volontà di costruire una strada per le generazioni future, favorire processi di mutamento che si realizzeranno solo con il tempo. “Forse io non vedrò questo cambiamento, ma voi sì” conclude. L’atto ultimo di generosità, fare qualcosa per gli altri senza vederne mai i frutti.

Mariaida Cicirelli

 

 

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