Parenti serpenti, l’eterno scontro tra i cugini di Campagnano

La querelle sull'ubicazione dell'ospedale è solo l'ultimo episodio di una lotta tra vicini. Oggi bisticciano Manna e Caruso, ieri erano loro illustri predecessori. E il sogno della Grande Cosenza lascia il posto come al solito ai campanilismi

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«Cosenza, che Michele Bianchi ha voluto bella». Il complimento al quadrumviro (e alla città) proveniva da una fonte insospettabile: Pietro Ingrao, che si era rifugiato in Presila e aveva visitato più volte il capoluogo.
Ingrao parlava della Cosenza dell’immediato dopoguerra, iniziato in Calabria un po’ prima, con l’arrivo degli Alleati. Cioè parlava di una città di poco più di 40mila abitanti che di lì a poco avrebbe vissuto un boom urbanistico formidabile e una crescita demografica impetuosa.

Ma nel piano di crescita urbana disegnato da Bianchi covavano già i germi del futuro declino della città: prima di altri il supergerarca aveva intuito che l’unica possibilità di espansione di Cosenza era a nordest, cioè verso Rende, perché a sudovest c’era l’ostacolo insormontabile dei colli e c’era un hinterland accidentato, pieno di campagne urbanizzate male e collegate peggio, da strade che tutt’oggi gridano vendetta.

Una rissa per l’Ospedale

La storia si ripete, ma stavolta in farsa. Riguarda il nuovo Ospedale hub di Cosenza che Marcello Manna, il sindaco di Rende, vorrebbe nel suo territorio.
E lo vuole così tanto da aver chiesto a Roberto Occhiuto un progetto di fattibilità.
Manna, nella sua richiesta, ha rilanciato un mantra vecchio di almeno dieci anni: Rende sarebbe preferibile al declinante territorio perché c’è l’Unical, che ha un corso di laurea in Farmacia e uno in Medicina e Tecnologie digitali nuovo di zecca. Inoltre, perché la città del Campagnano ha più territorio disponibile, anche in posizione strategica, a cavallo tra la Statale 107 e lo svincolo Nord della A2.

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L’Università della Calabria

Franz Caruso, il sindaco di Cosenza, ha risposto picche e ha rilanciato l’idea, altrettanto di lungo corso, di realizzare l’Ospedale a Vaglio Lise, nei pressi della Stazione ferroviaria. Il presidente del Consiglio comunale bruzio, Giuseppe Mazzuca, a tal proposito ha già annunciato che l’assise si pronuncerà in tal senso da qui a poco
In questo braccio di ferro, ciò che fa notizia è la pretesa rendese, segno che la città che è stata dei Principe al momento è in vantaggio sulla città che è stata dei Mancini, degli Antoniozzi e dei Misasi.

Cinquant’anni di braccio di ferro

Cosenza, al momento, mantiene gli uffici e i servizi pubblici che contano, a partire da Prefettura e Tribunale per finire con l’Ospedale e la sede della Provincia. E, ovviamente, ha l’anagrafe a suo favore che, con circa 67mila e rotti abitanti, la fanno poco più del doppio rispetto alla sua aggressiva dirimpettaia, da cui la dividono un tratto del torrente Campagnano e un segnale sul cavalcavia della Statale 107.

L’ingresso del tribunale di Cosenza

Ma il numero degli abitanti è illusorio, perché quei 67mila sono ciò che resta di una città che ha vissuto tempi migliori. E questo resto è destinato a calare, sia per la decrescita demografica sia per la ripresa dell’emigrazione, Al contrario, Rende, coi suoi poco meno di 34mila abitanti, tiene botta e denuncia una flessione minima.
Come si è arrivati a questo punto? Com’è stato possibile che un paese, sostanzialmente arroccato su una collina e sceso a valle dai primi anni ’70 sia arrivato al punto di dare la polvere all’orgogliosa (e spocchiosa) “Atene delle Calabrie”?

Un flashback

Facciamo un passo indietro e torniamo al 1970. Allora Rende aveva incassato un importante risultato: l’Università della Calabria, in quel momento “ospite” a Cosenza, ma la cui sistemazione definitiva era stata concessa a Rende, che l’aveva spuntata su Piano Lago. Fu un colpo da maestro di Cecchino Principe, sindaco dal 1952 e all’epoca deputato di lungo corso e sottosegretario alle Partecipazioni statali. Il notabile socialista fece una serie di espropri “lampo” a costi bassissimi e con un metodo che oggi si definirebbe “clientelare”: indennizzò i proprietari dei terreni di Arcavacata con posti di lavoro nell’Università. Questa mossa, completata col disegno urbanistico affidato al big Empio Malara, cambiò le sorti di Rende e di tutta l’area urbana cosentina.

Giacomo Mancini
Giacomo Mancini

La “grande Cosenza”, ideata da Michele Bianchi iniziava a svilupparsi, ma al contrario: non era Cosenza che si “allargava” verso Rende fino ad inglobarla, ma quest’ultima a estendersi verso il capoluogo. Inoltre, lo sviluppo di Rende ebbe un’altra conseguenza politica di lunga durata: l’irruzione dei Principe sulla scena politica regionale con un ruolo di primo piano e in piena autonomia rispetto alla leadership di Giacomo Mancini.
Forse meno carismatico rispetto al big cosentino, Cecchino Principe aveva dalla sua una forte empatia coi suoi elettori e un grande senso pratico. L’agronomo di Rende l’aveva fatta sotto il naso al sussiegoso avvocato cosentino, che univa ai galloni dell’antifascismo militante il peso della tradizione familiare.

La grande Cosenza che fu

I cosentini minimizzarono: Rende, allora, aveva poco più di 13mila abitanti, una bazzecola. Cosenza, invece, aveva superato da poco i 100mila e si orientava a sudovest, cioè verso la vecchia via del mare, che portava ad Amantea per la vecchia strada borbonica. E aveva una zona industriale di tutto rispetto, tra Molino Irto e Vadue, che faceva perno sulle Cartiere Bilotti e sul Pastificio Lecce.
Forse per questo non colsero la seconda mossa di Principe, che con un’altra serie di espropri consentì l’arrivo di Legnochimica a Contrada Lecco: era l’atto di nascita della zona industriale di Rende, che oggi è la principale dell’area urbana.
Ma tant’è: i partiti politici facevano da collante e il vecchio sistema di finanza derivata ridimensionava non poco il peso delle autonomie, perché i quattrini arrivavano in base alla popolazione.

La gara dei vampiri

A questo punto si arrivò al paradosso: tutti i municipi dell’hinterland tentarono di agganciarsi al capoluogo per “vampirizzarne” la popolazione. Lo fece Carolei, che inventò Vadue, lo fece Mendicino e lo fece Laurignano. E lo fece Castrolibero con Andreotta.
Ma chi succhiò più abitanti, fu Rende, semplicemente perché, a differenza dei suoi concorrenti, aveva un piano urbanistico a prova di bomba. E poi perché Cecchino Principe ebbe l’abilità di non farsene accorgere. La “sua” Rende si sviluppò come quartiere della Cosenza bene e benestante. Le cose sarebbero cambiate a partire dagli anni ’90, con l’ascesa di Sandro Principe, che interpretò in maniera particolare il nuovo sistema delle autonomie e pensò Rende come città alternativa e concorrente rispetto al capoluogo. Anche perché, tolto Giacomo Mancini, ormai non aveva quasi rivali.

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Sandro Principe ha dominato la politica rendese per molti anni

L’effetto Duracell

Tangentopoli fu un rullo compressore per Cosenza: azzerati i partiti storici, spento l’astro di Riccardo Misasi, il capoluogo provò a resistere col decennio manciniano, caratterizzato da alcune brillanti intuizioni che si sarebbero rivelate delle cambiali.
Tutte le misure urbanistiche (il rifacimento di piazza Fera e il ponte di Calatrava) miravano ad arroccare la città a Sud. Al contrario, Sandro Principe potenziò Rende a Nord, con massicci investimenti nella zona di Quattromiglia, che divenne un quartiere modello.
Era iniziato il braccio di ferro tra una città che perdeva abitanti e un’altra che aveva raddoppiato la popolazione residente. Il volano fu l’Unical, che aveva superato i 35mila iscritti dando il via a un mini boom edilizio.

Ma l’aspetto politico restava quello più importante: la fine dei partiti aveva provocato l’azzeramento delle vecchie élite cosentine, che riuscirono sì e no a riciclarsi nel nuovo alla meno peggio. A Rende, invece, fu centrale la continuità dei Principe, che consentì una gestione razionale e “dirigista” dello sviluppo urbano ed economico.
Principe seguiva a Principe. A Cosenza, invece, i Gentile, gli Adamo, i Guccione, gli Incarnato, i Morrone e via discorrendo avevano preso il posto dei Misasi, dei Mancini, dei Perugini, degli Antoniozzi, dei d’Ippolito e via discorrendo. Se non è declino questo…

E ora?

Il declino è uguale per tutti ma ad alcuni fa più male. È il caso di Cosenza, che pesa nelle dinamiche regionali solo perché è capoluogo di una delle province più grandi d’Italia. Ma questo peso è illusorio, perché l’ente Provincia, con la fine della Prima repubblica, si era “paesanizzato” non poco: basti pensare che i presidenti provinciali più duraturi, Antonio Acri e Mario Oliverio, sono stati di San Giovanni in Fiore.

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Mario Oliverio

Se dalla demografia si passa all’economia, la situazione peggiora. Rende ha il bilancio in crisi, ma evita il dissesto grazie al suo consistente patrimonio immobiliare. Cosenza è andata in default il 2019, dopo aver nascosto per quasi vent’anni un debito imponente, nato in lire e lievitato in euro. Il che significa una cosa: a parità di tasse (al massimo in entrambi i Comuni), Rende riesce a garantire servizi passabili, Cosenza no.

E la Grande Cosenza, in tutto questo? È solo un richiamo retorico per i cosentini che vivono nel capoluogo e consolano il proprio campanilismo con l’idea della “città policentrica” (un’assurdità urbanistica, perché tutte le città hanno un centro). I cosentini che hanno popolato Rende, al contrario, sono piuttosto tiepidi: a nessuno fa piacere diventare periferia di una città in declino e subirne i contraccolpi finanziari.
E Telesio? L’Accademia Cosentina? E le memorie risorgimentali? Un’altra volta…

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