Golpe Borghese: massoni, Servizi e ‘ndrangheta nella notte della Repubblica

Gli intrecci tra criminalità calabrese, destra eversiva e pezzi deviati dell'intelligence italiana e non. Era una notte dell'Immacolata. Poi arrivò il contrordine

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Per qualcuno, una delle pagine più oscure della storia della Repubblica. Per altri, invece, un’adunanza di nostalgici, che mai avrebbe potuto prendere il potere. Si dibatte ancora, a distanza di 52 anni, sul tentato golpe Borghese. E tante sono, ancora oggi, le zone d’ombra su un’azione che aveva come proprio centro nevralgico la Calabria.

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Il “Principe Nero” Junio Valerio Borghese molti anni prima del tentato golpe

Il Golpe dell’Immacolata

Un ex gerarca fascista, pezzi di destra eversiva, la P2 di Licio Gelli, pezzi di ‘ndrangheta. Una commistione di realtà e di interessi che, a metà tra storia e mito, rende il racconto ancor più inquietante. Quel progetto eversivo sarebbe dovuto scattare nella notte tra il 7 e l’8 dicembre del 1970. E si incastra in un momento di enorme cambiamento nelle dinamiche della ‘ndrangheta.

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Ciccio Franco, uno dei protagonisti della Rivolta di Reggio

Il primo triennio del 1970 è quindi decisivo, perché, con la rivolta di Reggio Calabria, nata, in maniera del tutto naturale, a causa della decisione politica di assegnare il capoluogo della regione a Catanzaro, le cosche riescono a entrare in contatto anche con diversi membri della Destra eversiva. Secondo molti collaboratori di giustizia, infatti, al fallito golpe, messo in atto da Junio Valerio Borghese, nel dicembre 1970, avrebbero preso parte anche centinaia di affiliati alle cosche.

Un uomo da romanzo, il “principe nero”. Ex comandante della Decima Mas, fiero e carismatico avrebbe tentato di mettere in atto l’ultimo colpo d’ala di una vita avventurosa. Sfruttando, peraltro, il periodo che viveva la Calabria. Esattamente in quegli anni, infatti nasce la Santa, la ’ndrangheta lega il proprio destino alla massoneria. Un legame che è proseguito negli anni e che è ben stretto ancora oggi.

Un sentiero che porta a Montalto, nel cuore dell’Aspromonte

Il summit di Montalto

Tutto affonda nel summit di Montalto del 26 ottobre 1969. In quell’incontro, nel cuore dell’Aspromonte, l’anziano patriarca Peppe Zappia ammonisce sulla necessità della ‘ndrangheta di organizzarsi, di essere unita. «Non c’è ’ndrangheta di Mico Tripodo, non c’è ’ndrangheta di ’Ntoni Macrì, non c’è ’ndrangheta di Peppe Nirta», dovrà tuonare nel corso della riunione. Si discute di strategie, si discute di equilibri, si discute dell’alleanza con la Destra eversiva. Quella di Junio Valerio Borghese. Ma anche di Stefano Delle Chiaie, uomo forte di Avanguardia Nazionale. Legami, quelli tra le cosche calabresi e la destra eversiva, che si protrarranno per anni, fino ai rapporti tra la cosca De Stefano e Franco Freda.

Stefano Delle Chiaie in un’aula di tribunale durante uno dei tanti processi che lo hanno visto coinvolto

Le divergenze tra i clan scaturiranno, invece, negli anni Settanta, nella prima guerra di mafia, in cui cadranno, tra gli altri, don ’Ntoni Macrì, e don Mico Tripodo (ucciso nel carcere di Poggioreale), oltre ai fratelli Giovanni e Giorgio De Stefano, che fanno parte, però, della “nuova mafia”. Del nuovo che avanza, appunto.

La ‘ndrangheta e le mafie in generale sarebbero dovute essere l’esercito di Borghese. Di contatti fra elementi mafiosi ed emissari di Junio Valerio Borghese parla anche il boss siciliano Luciano Liggio nel corso di una udienza svoltasi il 21 aprile 1986 dinanzi alla Corte d’Assise d’Appello di Reggio Calabria. Liggio racconterà di una riunione che si era tenuta a Catania con la presenza di Salvatore Greco, Tommaso Buscetta e dello stesso Liggio per discutere in merito all’adesione al golpe.

Il piano per il Golpe Borghese

Proprio i De Stefano e i Piromalli – le due cosche che, più delle altre, sarebbero artefici dell’ingresso della ‘ndrangheta nella massoneria – sarebbero state le famiglie calabresi più impegnate a favore del progetto di Borghese. A un nucleo speciale coordinato da Gelli sarebbe stato affidato il compito di rapire il Presidente della Repubblica, Giuseppe Saragat.

Il particolare emerge dalla sentenza-ordinanza emessa dal giudice di Milano, Guido Salvini. «Si trattava di un compito primario sul piano operativo e istituzionale nell’ambito del progetto di golpe e non è un caso che tale incarico fosse affidato ad un uomo del livello di Gelli, che godeva di molteplici, e allora ancora nascosti, contatti con i Servizi Segreti, l’Esercito, l’Arma dei Carabinieri e forse con Centrali internazionali» – si legge nel documento.

La presa del potere

«Italiani, l’auspicata svolta politica, il lungamente atteso colpo di stato ha avuto luogo. La formula politica che per un venticinquennio ci ha governato, e ha portato l’Italia sull’orlo dello sfacelo economico e morale ha cessato di esistere. Nelle prossime ore, con successivi bollettini, vi saranno indicati i provvedimenti più importanti ed idonei a fronteggiare gli attuali squilibri della Nazione. Le forze armate, le forze dell’ordine, gli uomini più competenti e rappresentativi della nazione sono con noi; mentre, d’altro canto, possiamo assicurarvi che gli avversari più pericolosi, quelli che per intendersi, volevano asservire la patria allo straniero, sono stati resi inoffensivi. Italiani, lo stato che creeremo sarà un’Italia senza aggettivi né colori politici. Essa avrà una sola bandiera. Il nostro glorioso tricolore! Soldati di terra, di mare e dell’aria, Forze dell’Ordine, a voi affidiamo la difesa della Patria e il ristabilimento dell’ordine interno. Non saranno promulgate leggi speciali né verranno istituiti tribunali speciali, vi chiediamo solo di far rispettare le leggi vigenti. Da questo momento nessuno potrà impunemente deridervi, offendervi, ferirvi nello spirito e nel corpo, uccidervi. Nel riconsegnare nelle vostre mani il glorioso tricolore, vi invitiamo a gridare il nostro prorompente inno all’amore: Italia, Italia, viva l’Italia!»

Con queste parole, l’ex comandante della X Mas avrebbe dovuto salutare la presa del potere. Non un progetto fantasioso di arzilli nostalgici del Ventennio, ma un piano studiato nei minimi particolari in accordo con diversi vertici militari e membri dei Ministeri. Il golpe del Principe nero prevedeva l’occupazione del Ministero dell’Interno, del Ministero della Difesa, delle sedi Rai e dei mezzi di telecomunicazione (radio e telefoni) e la deportazione degli oppositori presenti nel Parlamento.

Le dichiarazioni dei pentiti

Tra i primi a riferire, nel 1992, dei legami tra ’ndrangheta e Destra eversiva per il tentato golpe Borghese è il collaboratore di giustizia Giacomo Lauro. Dichiara anche che nell’estate del 1970 avvenne un incontro a Reggio Calabria tra i capibastone dei De Stefano (Paolo e Giorgio) e il principe Borghese attraverso l’avvocato ed ex parlamentare Paolo Romeo (secondo il collaboratore, ’ndranghetista ed esponente di Avanguardia Nazionale) per discutere sul colpo di stato.

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Paolo De Stefano, boss della omonima famiglia prima di essere ucciso nel 1985

Le sue dichiarazioni sono contenute nella sentenza-ordinanza del giudice istruttore di Milano, Guido Salvini, sulle attività della Destra eversiva. Nello stesso procedimento figuravano, tra gli altri, proprio Stefano Delle Chiaie e Licio Gelli: «[…] Più volte alla ’ndrangheta fu richiesto di aiutare i disegni eversivi portati avanti da ambienti della Destra extraparlamentare fra cui Junio Valerio Borghese; il tramite di queste proposte era sempre l’avvocato Paolo Romeo. I De Stefano erano favorevoli a questo disegno e in particolare al programmato golpe Borghese».

A parlarne è anche l’ex estremista nero, Vincenzo Vinciguerra: «La mobilitazione avvenne nella provincia di Reggio Calabria e si trattava di un gran numero di uomini armati. Anche in Calabria venne fatto riferimento, da persona che non intendo nominare, alla possibilità di mobilitare 4000 uomini sempre appartenenti alla ’ndrangheta ove la situazione politica lo richiedesse».

Gli appartenenti alla ’ndrangheta, armati e mobilitati per l’occasione sull’Aspromonte, erano stati messi a disposizione dal vecchio boss Giuseppe Nirta, estimatore di Stefano Delle Chiaie il quale era in grado, secondo lui, di «ristabilire l’ordine nel Paese». Sul punto, anche il collaboratore Serpa ricorda come il summit di Montalto, dell’ottobre del 1969, dovesse servire per trovare un accordo tra i clan e il principe Borghese: «A Montalto doveva essere sancita l’alleanza tra l’organizzazione mafiosa calabrese e il gruppo eversivo di destra presente allo stesso summit e guidato dal principe Borghese».

Golpe Borghese, salta tutto

Il golpe sarà però annullato per motivi ancora oggi, a distanza di oltre cinquant’anni, oscuri. Con l’avvio delle indagini Borghese fuggirà in Spagna, dove morirà nel 1974. I procedimenti imbastiti, tuttavia, finiranno con un nulla di fatto. Piuttosto accreditati, ma non provati, i coinvolgimenti sia dei Servizi segreti italiani, in particolare il Sid (Servizio Informazioni Difesa), sia della Cia americana. Un progetto che avrebbe visto un inquietante connubio tra destra eversiva, Servizi segreti, massoneria deviata (la P2 di Licio Gelli) e criminalità organizzata.

Paolo De Stefano, boss della omonima famiglia prima di essere ucciso nel 1985
Licio Gelli, è stato il capo della P2

Da ultimo, sul punto, il racconto di Carmine Dominici, ex appartenente ad Avanguardia Nazionale e in quegli anni molto vicino proprio a Delle Chiaie. Quando decide di collaborare con la giustizia, Dominici parla del ruolo che l’organizzazione estremista avrebbe avuto in alcune delle vicende più oscure della storia d’Italia, tra cui la strage di piazza Fontana. Parla anche del golpe progettato da Junio Valerio Borghese. E racconta delle grandi manovre gestite, in quel periodo, dal marchese Fefè Genoese Zerbi, che era il referente di Avanguardia Nazionale sul territorio:

«[…] Anche a Reggio Calabria eravamo in piedi tutti pronti per dare il nostro contributo. Zerbi disse che aveva ricevuto delle divise dei Carabinieri e che saremmo intervenuti in pattuglia con loro, anche in relazione alla necessità di arrestare avversari politici che facevano parte di certe liste che erano state preparate. Restammo mobilitati fin quasi alle due di notte, ma poi ci dissero di andare tutti a casa. Il contrordine a livello di Reggio Calabria venne da Zerbi».

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