Chi pensava che passata la sfuriata della fase acuta e archiviati i vari lockdown, tutto sarebbe presto tornato alla normalità, non aveva fatto i conti con l’onda lunga del Covid e i suoi effetti sulla salute mentale.
La corsa del Coronavirus non si è arrestata alle soglie dei reparti di malattie infettive, nelle terapie intensive degli ospedali ingolfate di polmoniti bilaterali e insufficienze respiratorie. Il virus si è insinuato nella vita privata dei cittadini come un tarlo, ha rotto equilibri, scombinato prassi, modificato routine. E questo ha avuto conseguenze. In alcuni casi delle gravi conseguenze.
La stabilità mentale in crisi
Ci sono state persone che hanno lasciato il lavoro. Altre che non hanno resistito al nuovo assetto sociale post-pandemico e non sono riusciti a mantenere una relazione affettiva.
L’elemento che più di tutti sembra aver messo in crisi la nostra stabilità mentale è lo stop, forzato, ad ogni forma di interazione sociale. Ne è convinta la psicoterapeuta di Cosenza, Maria Giovanna Napoletano: «A causa dalla difficoltà di stare insieme tra pari, molti bambini presentano ritardi nel linguaggio. Problemi nella sfera della socialità colpiscono invece i pre-adolescenti e hanno a che fare con la sensazione costante di precarietà».
Ondate, varianti, zone rosse, lockdown, quarantena: sono tutti elementi di un nuovo linguaggio sociale che ha destrutturato la realtà che conoscevamo creandone una nuova, inedita e destabilizzante.
Salgono le patologie psichiatriche nei bambini
In tutta Italia nell’ultimo anno c’è stata una vera e propria esplosione di patologie psichiatriche, anche in età pediatrica. Lo ha fatto notare la dottoressa Elena Chiappini, pediatra che lavora al prestigioso ospedale Meyer di Firenze e docente universitario in Pediatria generale e specialistica dell’Università di Firenze.
Soffre tanto chi sta già messo male
C’è un dato, invece, su cui sembrano esserci ormai pochi dubbi, ed è la relazione causale tra la pandemia da Covid e le malattie psichiatriche. Lo conferma Immacolata d’Errico, psichiatra e psicoterapeuta: «L’analisi dei dati – spiega – dimostra non solo l’escalation di queste patologie a iniziare dai disturbi del comportamento alimentare ma anche l’evoluzione di disagio psicologico in chi non ha sviluppato quadri psichiatrici».
Fuori da ogni tecnicismo, significa che la pandemia ha amplificato la fragilità psicologica anche di quella parte di popolazione che con panico, depressione e atti di autolesionismo, non aveva finora mai fatto i conti.
Diversa la situazione per chi era già avvezzo al disagio mentale prima dell’avvento della pandemia. In questi casi, si è notato un aggravamento del quadro clinico. Quanto esteso possiamo desumerlo dalla statistica che ci fornisce la cosentina Maria Giovanna Napoletano: «Dalla mia esperienza ho notato una complicazione delle patologie in circa l’80% dei pazienti».
Sterilizzare le mani in maniera compulsiva
Secondo i professionisti della salute mentale, i disturbi d’ansia si manifestano in modo diverso in base all’età dei soggetti. I bambini fino ai 5/6 anni di età, sviluppano sintomi fisici come mal di testa, mal di pancia, paura del buio, ansia da separazione. Dai 7 anni in su possono comparire segni di stress, alterazioni del pensiero, panico, disturbi del sonno e dell’umore. Peggiorativi sono i risultati di un altro studio sul disturbo ossessivo – compulsivo che sembra avere sofferto parecchio la “perturbazione” che la paura del Covid – 19 ha provocato. Ci sono stati casi di persone talmente esasperate dalla necessità di lavarsi le mani e di igienizzarle anche decine e decine di volte al giorno, da essersi provocati ipersensibilità ai detergenti, irritazioni ed eritemi.
Il parere della psicoterapeuta
«Purtroppo è una situazione a cui assistiamo spesso in chi soffre di disturbo ossessivo compulsivo» spiega la dottoressa Napoletano, che di lavoro fa la psicoterapeuta. «Le norme introdotte per il contenimento del contagio hanno aggravato le compulsioni: lavarsi le mani e disinfettarsi sono gli esempi più ricorrenti ma non sono gli unici. C’è stato anche un aggravamento di tipo cognitivo: pensieri ricorrenti e intrusivi sono stati esasperati dal contesto di solitudine e dalla mancanza di relazioni sociali».
Roberta, sola e in preda alla paranoia
Gianmarco e Roberta possono aiutare a capire come il Covid impatta nel concreto sulla sofferenza mentale. Roberta (entrambi i nomi sono chiaramente di fantasia) è una vedova sulla sessantina. Abita sola in una villetta alla periferia del capoluogo di regione. La sua vita è stata segnata dal disagio psichico sin dalla più tenera età ma negli ultimi anni era riuscita a ritagliarsi una certa stabilità fatta di poche e abitudinarie azioni: uscire per la spesa, fare una sosta al tabacchino e rientrare a casa. Tanto le bastava.
Con il Covid le cose sono cambiate. Le chiusure, le zone rosse, il martellamento mediatico hanno riacceso in lei la paranoia di potersi contagiare e l’hanno portata a chiudersi in casa e a rinunciare alle (poche) interazioni sociali che aveva. Dopo quasi due anni, gli effetti continuano a farsi sentire. Roberta non ha più ripreso la sua routine e le sue giornate sono condizionate dalla paura di potersi ammalare e da una sensazione di precarietà asfissiante.
Gianmarco, fissato con l’ordine e la pulizia
Gianmarco, anche lui calabrese, ci racconta una storia diversa. La sua diagnosi pre-Covid era disturbo ossessivo compulsivo con tratti paranoici. Ha sempre avuto la tendenza a pensare troppo, Gianmarco. E l’arrivo del Covid non lo ha aiutato. Anzi. La famiglia racconta che ha iniziato ad essere fissato con l’ordine e la pulizia. Disinfettava tutto quello che entrava in casa: dalle buste della spesa agli abiti indossati, dalle chiavi alle scarpe al portamonete. Il Covid era sempre nei suoi pensieri, le sue giornate erano scandite dal Bollettino informativo delle 18 con numero di morti e feriti. Di tornare in cura e riprendere le sedute con lo psichiatra, per lui era un assoluto tabù. Gianmarco dice di essere troppo geloso dell’autonomia che è riuscito a conquistarsi in questi anni. «Tornare in terapia – spiega – sarebbe come andare indietro di dieci anni, ammettere che sono ancora malato e che non ho speranza di guarire».