Così fan tutti (a Vibo): i politici ingombranti tornati in ballo per le Regionali

Hanno cambiato casacca più volte come se niente fosse e potrebbero rifarlo. Portano voti, ma anche guai potenziali ai loro attuali partiti

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In comune hanno molte cose, soprattutto quella di essere ingombranti per i loro stessi schieramenti. Poi c’è l’umana tendenza all’autoconservazione che li spinge a svolazzare di fiore in fiore nel tentativo di carpirne il profumo e succhiarne la linfa. Le metafore finiscono qui, perché le gesta dei personaggi in questione non sono esattamente ancorate all’idealismo ma a quel realismo che in politica, specie nella periferia della periferia calabrese, si traduce in sfrontato cinismo.

Non sono certo i soli, ma i loro profili sono paradigmatici di come vadano le cose in quel di Vibo Valentia, dove su trasversalismo e consociativismo si potrebbe istituire dei corsi di laurea. Sono quattro, due vengono dalla “città” e gli altri due dall’entroterra. Hanno cambiato casacca più volte, certo più per necessità che per propensione concettuale, e sono pure chiacchierati. Ma, direttamente o indirettamente, si preparano a giocare un ruolo di primo piano in vista delle prossime elezioni regionali.

Hasta la victoria a volte

Partiamo dal più giovane, Vito Pitaro. Avvocato, 45 anni, a gennaio 2020 è stato eletto nella lista “Jole Santelli presidente” con 5.024 preferenze. È alla sua prima legislatura regionale, ma a Palazzo Campanella ci era già stato prima, vedremo come e con chi. Dal 2005 al 2007 è stato consigliere comunale nella sua città, Vibo, nonché assessore alle politiche sociali, della famiglia, del volontariato, dell’associazionismo e sanitarie. Deleghe eterogenee, proprio come il suo percorso politico. Oggi Pitaro è un irrinunciabile portatore di voti del centrodestra – in molti scommettono in un suo boom di consensi esteso fino ai confini crotonesi del collegio – ma fino a qualche anno fa era addirittura un compagno: è stato in Rifondazione comunista e nei Comunisti italiani, quindi socialista e anche dirigente del Pd.

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L’ex comunista Vito Pitaro

In una delle poco esaltanti sedute di questi mesi del consiglio regionale, vestito come se stesse festeggiando un matrimonio a Little Italy, ha dato il meglio della sua arte oratoria per sbeffeggiare l’opposizione di centrosinistra rispetto ai danni fatti nel recente passato. Nessuno dei dirimpettai, però, gli ha ricordato che proprio nella vituperata legislatura precedente è stato tra i ben remunerati collaboratori di uno dei consiglieri del Pd più vicini a Mario Oliverio, Michele Mirabello.

Intercettazioni che scottano

Magari, regolamento alla mano, la Commissione Antimafia non potrà fare il “favore” a Roberto Occhiuto di segnalare il suo nome, che però compare, non da indagato, in un paio delle più rivelanti inchieste antimafia che hanno riguardato il Vibonese negli ultimi anni. In una, “Rimpiazzo”, ci sono intercettazioni parecchio sconvenienti dei suoi colloqui con un presunto killer ed elemento di vertice, descritto come piuttosto sanguinario, del clan dei “Piscopisani”.

L’altra è Rinascita-Scott: nell’aula bunker del maxiprocesso il suo nome, anche qui non da indagato né da imputato, è riecheggiato più volte. E nelle carte, per esempio, c’è una telefonata tra un indagato e uno dei principali imputati, Giovanni Giamborino, in cui quest’ultimo dice: «’Sto Vito è uno spregiudicato… di nessuna cosa si guarda… fa compari, comparaggi con tutto».

Il rinnegato

Per anni Pitaro è stato il plenipotenziario su Vibo di Brunello Censore, ex uomo forte del Pd ora rinnegato dal suo stesso partito e riparato tra le fila di Mario Oliverio, con cui pare voglia candidare il figlio. Nato a Serra San Bruno 63 anni fa, cuoco, commercialista, docente di scuola superiore, è stato consigliere comunale e poi sindaco del suo paese dal 2002 al 2005. Quindi il grande salto: eletto consigliere regionale nell’era Loiero si conferma, passando all’opposizione, anche quando vince Peppe Scopelliti.

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Da sinistra verso destra, Vito Pitaro, Stefano Luciano (capogruppo del Pd al Comune di Vibo) e Brunello Censore

La carriera non si ferma e nel 2013 arriva addirittura alla Camera. Un figlio del popolo, di famiglia umile e cresciuto nella sezione del Pci di un paese di montagna, fa ingresso a Montecitorio e ci resta per 5 anni. Bersaniano quando vince Bersani, renziano quando si afferma Renzi, poi ovviamente anche Zingarettiano, alle primarie per il fratello di Montalbano incassa grandi numeri e diventa un personaggio social per un’espressione che riassume il suo credo politico – «a mia mi piacia mu ‘ndi vidimu allu bar, mu parramu , mu facimu…» – e per l’imitazione con tanto di video spopolante sul web che ne fece un giovane studente durante un incontro pubblico.

Né con te né senza di te

A maggio del 2018 il consiglio regionale della Calabria gli ha riconosciuto il vitalizio per i due mandati a Palazzo Campanella: 8 anni e 29 giorni per un assegno mensile di 4.113,58 euro. Alle primarie nazionali di cui si diceva (marzo 2019) fece una lista, “Calabria con Zingaretti”, assieme a Carletto Guccione e contro Oliverio. A giugno del 2019 dichiarava convinto: «Il Pd vada oltre Oliverio o la sconfitta è certa. Il progetto di cambiamento è diventato continuismo. Ripartiamo dal civismo».

Probabilmente poi avrà cambiato idea sul civismo quando Pippo Callipo mise una x sul suo nome alle Regionali del 2020 facendolo ripiegare su Luigi Tassone, oggi ricandidato dal Pd che, come tanti altri nel percorso politico di Censore, gli ha voltato le spalle dopo aver beneficiato del suo appoggio. Oggi è tornato con Oliverio.

Per Brunello la discesa è iniziata con la batosta presa alle Politiche del 2018, quando non è riuscito a farsi rieleggere alla Camera venendo superato dalla meloniana Wanda Ferro e dalla grillina Dalila Nesci. Lui all’epoca deteneva ancora le redini del Pd a Vibo e la sua prima vendetta fu l’espulsione dai dem dell’ex presidente della Provincia Francesco De Nisi.

L’espulso già senza tessera

Nato a Filadelfia nel ’68, ingegnere, eletto più volte sindaco del suo paese con percentuali bulgare, De Nisi viene dai cattolici di centrosinistra confluiti nella Margherita, ma quando Censore lo ha fatto espellere lui non aveva la tessera del Pd da due anni. Hanno fatto scalpore le foto che lo ritraevano all’epoca in un conciliabolo romano con il senatore di Forza Italia Giuseppe Mangialavori, ma oggi nessuno si stupisce più nel vederlo mani e piedi nel centrodestra.
A gennaio 2020 si è candidato con Jole Santelli nella “Casa della libertà” ma, nonostante i 7mila voti presi, non è riuscito a diventare consigliere regionale. Stavolta ci riproverà con la creatura politica di Giovanni Toti, “Cambiamo”.

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Francesco De Nisi
La poltrona al fratello

Nella sua Filadelfia ha lasciato la poltrona da primo cittadino ben salda sotto le terga del fratello minore, Maurizio, mentre alla Provincia ha condiviso con il suo predecessore, Gaetano Bruni, la sorte di dimettersi prima della scadenza naturale del mandato da presidente per inseguire uno scranno parlamentare mai raggiunto. La storia di quell’ente, finito in dissesto finanziario e al centro di inchieste e polemiche, è tristemente nota.

Ancora tutta da scrivere, almeno in sede giudiziaria, è invece quella che potrebbe scaturire dalle dichiarazioni di un collaboratore di giustizia, Giovanni Angotti, che nel corso di diversi interrogatori, parlando del clan Anello-Fruci, ha riferito «che la cosca in occasione di alcune competizioni elettorali aveva appoggiato Francesco De Nisi procacciandogli dei voti». De Nisi non è indagato e ha respinto le accuse del pentito: «Sono rimasto basito dalla diffusione di tali notizie del tutto prive di qualsiasi possibile indizio di fondamento e che contrastano con il mio impegno pubblico».

Il pianista

La sua strada si è recentemente incrociata con quella di un ex senatore di lungo corso tornato al centro del dibattito politico e anche delle schermaglie mediatico-giudiziarie. De Nisi, di scuola Dc, è infatti vicecoordinatore del movimento di Toti che, a livello regionale, è guidato da Franco Bevilacqua. Tutt’altra scuola: nato a Vibo nel ’44, insegnante, Bevilacqua viene dal Msi ed è entrato in Senato nel 1994 con Alleanza nazionale.

A Palazzo Madama ha fatto quattro legislature: da An-Msi è passato nel Popolo della Libertà e ci è rimasto dal 2008 al 2013. Poi è transitato in Fratelli d’Italia ed è approdato alla corte dei sovranisti di Gianni Alemanno. Nel frattempo ha maturato il diritto a un vitalizio che oggi dovrebbe aggirarsi attorno ai 5mila euro al mese e, negli anni, le cronache parlamentari lo segnalano per un paio di episodi non proprio da curriculum.

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Franco Bevilacqua in versione pianista

Una volta fu beccato a fare il “pianista”: si votava (ottobre 2002) la “legge Cirami” (legittimo sospetto e rimessione del processo) e Bevilacqua fu ripreso mentre assieme ad altri schiacciava il pulsante anche per un collega assente. Un’altra volta risultò tra i cofirmatari di un disegno di riforma costituzionale per abolire la XII norma della Costituzione italiana, quella che vieta «la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto Partito fascista».

Votato da tutti

Oggi le sue posizioni devono essere diventate più moderate visto che è il coordinatore regionale di un partito/persona che guarda al centro e che parla, per la Calabria, di «modello Genova». Il suo rinnovato impegno è stato però “sporcato” dalle dichiarazioni di un altro pentito, Bartolomeo Arena, secondo cui i Pardea, storica famiglia mafiosa di Vibo, avrebbero sostenuto Bevilacqua.

«È stato votato praticamente da tutti – ha detto Arena deponendo in Rinascita-Scott – perché ce lo disse Enzo Barba. È fratello di uno ’ndranghetista, Ferruccio (deceduto nel 2018, ndr), affiliato ai Pardea fin dagli anni ’70, avendo attivato la Locale insieme a mio padre, per poi avvicinarsi al ramo di Giuseppe Mancuso detto ’Mbrogghjia».

«Ma era anche un massone perché Salvatore Tulosai, negli anni ’90 stava cercando di entrare in quegli ambienti proprio per il tramite di Ferruccio, legato a Carmelo Lo Bianco alias “Piccinni” ed Enzo Barba detto “Il musichiere”. Ma già il padre di Franco Bevilacqua aveva rapporti strettissimi con i Lo Bianco perché abitava nello stesso quartiere. Quando vinse le elezioni entrando in Senato ci ritrovammo tutti nella sua sede che era al centro della città».

Così fan tutti

Ovviamente le dichiarazioni dei pentiti sono ancora tutte da riscontrare e i politici tirati in ballo sono innocenti fino a prova contraria. Fanno però riflettere i vizi privati e le pubbliche virtù di una politica che a Vibo sembra sempre uguale a se stessa e sempre pronta a riciclarsi alleandosi e scambiando favori con chiunque, in barba a ideologie, partiti e schieramenti. Per dire: è emblematica un’intercettazione – sempre Rinascita-Scott – in cui uno dei Nostri, Censore, chiama Giancarlo Pittelli, avvocato-politico oggi ai domiciliari perché coinvolto nello stesso maxiprocesso, per dirgli che lo aveva sostenuto in passato, anche se i due appartenevano a partiti “nemici”, e che era venuto il momento di ricambiare il favore.

Quella telefonata avveniva alla presenza di un imprenditore che secondo gli inquirenti sarebbe colluso proprio con la cosca di Filadelfia, il paese di De Nisi. Ed è capitato pure in un determinato momento storico non troppo lontano (febbraio 2019) che l’ex missino Bevilacqua e l’ex comunista Censore appoggiassero lo stesso candidato a sindaco (Stefano Luciano, oggi capogruppo del Pd in consiglio comunale). Così fan tutti, a Vibo.

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