Inutile giraci intorno: il crack della Silicon Valley Bank ha creato sgomento. È caduto un mito e quando crollano i miti ti senti smarrito, incapace di elaborare una ragione, avverti la tua debolezza.
È un po’ come quando perdi un grande amore. Negli ultimi 40 anni chiunque (e fra questi il sottoscritto) parlasse di start-up, di risk capital, di innovazione finanziaria, di nuova imprenditorialità legata ai follow up della ricerca universitaria finiva per citare la Silicon Valley Bank come eccellenza mondiale e come modello (best practice, dicono quelli bravi) da replicare nei contesti produttivi maggiormente orientati alla ricerca.
Non vi era convegno, seminario, club deal o acceleratore d’impresa che prescindesse da lei: l’istituzione finanziaria californiana capace di dare credito alle idee d’impresa piuttosto che agli immobili da ipotecare in garanzia, come fanno le banche di casa nostra. E giù la raccomandazione (rigorosamente inascoltata) data a diverse generazioni di politici di creare istituzioni finanziarie (magari anche regionali) con la specifica mission (oh yes) di dare credito alle idee di ragazze e ragazzi, magari squattrinati, ma con una solidità visionaria e nuove ipotesi di prodotto, di modelli di consumo da lanciare sul mercato.
Inutile ora cercare di capire le cause (tassi elevati, inflazione sottovalutata, aspettative in forte ritirata, il Metaverso che entra in conflitto con l’economia reale, la FED troppo ortodossa in materia monetaria, probabilmente un po’ di tutto ciò). Ci vorranno mesi, e forse anni, per un’analisi seria e credibile.
Cerchiamo piuttosto di capire se è in crisi il modello della Silicon Valley. Anche perché, per quanto apparentemente lontana, questa evoluzione del modello dell’innovazione a tutti i costi potrebbe a breve presentare il conto, non proprio gradevole, a tutti i paesi dell’UE e, fra questi, soprattutto a quelli che hanno creato distretti industriali legati all’innovazione.
La Calabria dell’innovazione
E qui entra in gioca anche la nostra remota e lontana Calabria che, come noto, ha poggiato buona parte delle sue idee di sviluppo proprio sull’innovazione e sul ruolo delle università. Ripetiamoci: il problema non è solo il rischio di contagio del crollo finanziario in sé (le banche europee hanno portafogli diversificatissimi e non specializzati come nel caso della SVB). Risentiranno magari di qualche reazione emotiva in borsa ma i fondamentali dovrebbero tenere. Almeno si spera.
Ad entrare in discussione potrebbe essere, piuttosto, il concetto stesso di distretto innovativo con filiere iper specializzate dove il valore è dato esclusivamente dal tempo necessario ad una linea di ricerca applicata di diventare prima brevetto, prototipo, business idea, progetto d’impresa e poi finalmente start up. Per dirla con gli americani (e sempre con quelli bravi) il time-to-market.
Sono anni che suggerisco ai decisori politici di casa nostra, a volte amici a volte meno, di recuperare l’idea sempreverde della filiera integrata per allineare la politica industriale alle vocazioni territoriali e soprattutto di non confondere l’occupazione di breve periodo con il vero obiettivo di questa scelta.
Il campanello d’allarme della californiana SVB significa, alle nostre latitudini, che la cultura dell’innovazione non deve trasformarsi in ossessione di mercato. Prodotti con cicli di vita troppo brevi, ad esempio, non diventano, meccanicamente, un fiore all’occhiello del sistema produttivo. Possono essere, al contrario, elementi di rigidità e di propensione alla crisi strutturale con effetti negativi a catena su occupazione, risparmio, domanda, investimenti.
Questo non significa essere contro l’innovazione. Significa che il legame tra uomo e cultura, tecnologia e prodotto sta perdendo coerenza e logica.
Non è caduta solo una banca. È caduta la Silicon Valley Bank.
L’antropologia culturale dell’uomo veloce, multitasking a tutti i costi e virtualizzato nel metaverso potrebbe ricevere dal mercato un brusco richiamo alla realtà.
Ma io no, non posso negarlo, ho perso un altro mito.