Pronti a colpire ancora. Con armi da guerra. La cosca Crea di Rizziconi è una delle consorterie più feroci della ‘ndrangheta. Il lavoro congiunto di tre Direzioni Distrettuali Antimafia lo dimostra ulteriormente. Dal profondo Sud, con il lavoro dei pm di Reggio Calabria. Al Nord, con le attività della Dda di Brescia. Fino al Centro, con la Dda di Ancona, competente territorialmente per il delitto.
Tre Procure al lavoro
Con le indagini congiunte, infatti, gli inquirenti sono convinti di aver fatto luce sul delitto di Marcello Bruzzese, consumato nel giorno di Natale del 2018 a Pesaro, nelle Marche. Un delitto gravissimo, realizzato in un giorno simbolo, il 25 dicembre. Come nelle migliori tradizioni di ‘ndrangheta. Reso ancor più inquietante dal fatto che Bruzzese risiedeva nella tranquilla Pesaro, indicata come “località protetta”. Era il fratello del collaboratore di giustizia Girolamo Biagio Bruzzese, già organico alla cosca Crea di Rizziconi (RC) e dalla quale si era dissociato nel 2003 dopo aver attentato alla vita di Teodoro Crea, capo della cosca, detto il “Toro”.
Associazione di tipo mafioso, omicidio, porto e detenzione illegale di armi, reati questi ultimi aggravati dall’aver commesso i fatti al fine di agevolare l’associazione di tipo mafioso denominata ‘ndrangheta. Queste le contestazioni che gli inquirenti muovono agli indagati. I pm hanno spiccato un provvedimento d’urgente di fermo a carico di quattro persone: Vincenzo Larosa, Michelangelo Tripodi, Rocco Versace e Francesco Candiloro. Tutti, ad eccezione del primo, sono ritenuti organizzatori ed esecutori materiali del delitto.
Il delitto Bruzzese
Una falla pazzesca nel sistema di protezione. Le complesse verifiche condotte hanno consentito di accertare come nei periodi immediatamente precedenti all’omicidio gli indiziati avevano condotto minuziosi e ripetuti sopralluoghi per studiare le abitudini della vittima. Servendosi, in queste circostanze, di documenti falsi e di una serie di accorgimenti utili a impedire la propria identificazione.
Il vasto compendio probatorio raccolto dalle attività condotte dal ROS, ha permesso di circoscrivere il movente dell’azione omicidiaria nella “vendetta trasversale”, nell’interesse della cosca Crea. Per la decisione collaborativa assunta da Girolamo Biagio Bruzzese nel 2003.
All’omicidio del Natale 2018 va quindi attribuita una valenza strategica, in quanto necessario a rimarcare la perpetuazione dell’operatività della cosca Crea e della sua capacità di intimidazione. Nonché a scoraggiare, nell’ambito della consorteria, ulteriori defezioni collaborative.
Pronti a colpire ancora
Ma, paradossalmente, non è questo l’elemento più inquietante dell’inchiesta. Le indagini dei Carabinieri del Ros, infatti, avrebbero dimostrato come Vincenzo Larosa e Michelangelo Tripodi fossero soggetti a disposizione degli interessi del sodalizio. Larosa affiliato di vecchia data ai Crea. Il padre Carmelo avrebbe anche fornito un bunker per la latitanza di alcuni soggetti apicali del clan della Piana di Gioia Tauro. Sul conto di Tripodi, soggetto del Vibonese, pesano invece le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Bartolomeo Arena, recentemente escusso anche nel maxiprocesso “Rinascita – Scott”, condotto dalla Dda di Catanzaro.

Ebbene, secondo l’inchiesta, Larosa e Tripodi stavano pianificando più attentati omicidiari nell’interesse di Domenico Crea. Anche come ritorsione per l’emissione della sentenza di condanna emessa il 12.12.2020 dalla Corte di appello di Reggio Calabria a carico di Teodoro Crea, Giuseppe Crea (cl.78) e Antonio Crea (cl. 63). Si tratta del procedimento “Deus”, con cui la Dda di Reggio Calabria ha dimostrato l’ingerenza del potente casato di ‘ndrangheta nell’amministrazione comunale di Rizziconi. In quell’occasione, si registrò la coraggiosa denuncia dell’allora sindaco Antonino Bartuccio, soggetto sgradito ai Crea. Da quel momento, Bartuccio vive sotto scorta insieme ai propri familiari. E potrebbe essere proprio lui uno dei soggetti nel mirino dei Crea.
Le armi da guerra
Alla conclusione, gli inquirenti arrivano valorizzando delle captazioni di tipo tecnologico che non si era potuto acquisire “in diretta”. Le conversazioni testimonierebbero l’astio degli affiliati dopo la sentenza d’Appello del processo “Deus”. Da quel momento, sarebbe scattata una corsa agli armamenti di tipo pesante. Un gruppo di fuoco agguerrito, nonostante i vertici della cosca siano da tempo detenuti in regime di 41 bis. Come ha spiegato il procuratore capo di Reggio Calabria, Giovanni Bombardieri: «Sempre pronti “a dare soddisfazione” ai loro capi in carcere».

Un canale individuato per ottenere l’approvvigionamento di armi sarebbe stato il territorio dei Balcani. Sebbene non ritrovato in sede di perquisizione dai Carabinieri, gli affiliati fanno chiaro riferimento a un bazooka. Evidentemente in grado di poter colpire con successo anche un’auto blindata. Proprio come quella su cui viaggia Bartuccio insieme alla famiglia. Agli atti dell’inchiesta una conversazione in cui uno dei fermati, facendo riferimento a una sentenza della Corte d’Appello, diceva che ci voleva un AK47, un kalashnikov. E sparare à gogo.
Insomma, sebbene il procuratore di Reggio Calabria, Giovanni Bombardieri, e l’aggiunto Gaetano Paci, mantengano ufficialmente il riserbo, appare pressoché scontato che uno degli obiettivi fosse proprio Bartuccio. Protagonista di una coraggiosa (e rara) denuncia e quindi da punire. Soprattutto dopo la dura sentenza d’Appello.
«Due dei fermati erano pronti a commettere altri episodi delittuosi con la disponibilità di armi da guerra inquietanti. Stavano pianificando un altro delitto di un altro testimone di giustizia che aveva reso testimonianze» ha rivelato, la procuratrice distrettuale antimafia delle Marche, Monica Garulli.