«La bambina sarà restituita presto alla “braccie” (testuale, nda) dei genitori» annunciava fiero il giornalista, quando ormai era certo che la neonata fosse stata ritrovata. Quello che lui non sapeva è che intanto i social, nel corso del tempo durante il quale ancora non si conosceva l’esito del rapimento, avevano scatenato l’inferno.
La storia della bambina rapita a Cosenza e tempestivamente ritrovata si è presentata sin da subito come un esperimento sociale che alla fine ha decretato la morte o, almeno, le gravi condizioni del giornalismo.
La notizia viaggia su Whatsapp
Dopo pochissimo tempo dal rapimento consumatosi in una clinica cosentina, sono stati i social e particolarmente i gruppi whatsapp a marcare la notizia, dando vita a un fenomeno non nuovo e tuttavia non di meno particolarissimo, secondo il quale chi dà la notizia è al tempo stesso destinatario della notizia stessa, una sovrapposizione tra chi informa e chi viene informato, tra chi forgia l’opinione pubblica e l’opinione pubblica stessa, in un vortice di racconti, ricchi di dettagli e però quasi sempre del tutto inaffidabili, generati e diffusi con la bramosia di conoscere la storia, ma anche di partecipare alla sua costruzione e al suo racconto. Tutti consumatori e produttori di fatti che viaggiavano sui cellulari senza alcuna possibilità di conferma.
È accaduto così che gli eventi venissero divulgati con la inscalfibile certezza della verità, per poi trovare smentite altrettanto aleatorie e tuttavia spacciate per certe. Ma non poteva bastare.
E infatti accanto alla divulgazione di notizie su come e su chi avesse compiuto l’esecrabile crimine, ecco comparire la vena da consumato opinionista che abita in ogni individuo. Di qui i giudizi, espressi sempre con il tono di chi ha capito ogni cosa, sulla clinica, sulla trascurabile sicurezza della struttura, sull’etnia dei rapitori. Che uno di loro fosse di un colore diverso dalla maggior parte di noi, è stato sin da subito un boccone troppo ghiotto per essere trascurato.
«L’hanno trovata», gridava su un gruppo whatsapp qualcuno comprensibilmente entusiasta, aggiungendo che «a chiru merda du nivuru l’hanno minato», ottenendo grandissimo consenso.
Il giornalismo dei telefonini e la bambina rapita a Cosenza
Quello della bambina rapita a Cosenza è stato il trionfo e la sciagura del citizen journalist.
Il trionfo perché l’attenzione della maggior parte dei cosentini era mirata sugli schermi dei telefonini, da dove si generavano e si divoravano informazioni, mentre le testate giornalistiche, salvo una maggiormente presente sul fatto, attendevano sviluppi certi per annunciarli.
Ma pure la sciagura, perché nessuna delle notizie che circolavano senza controllo appariva sufficientemente autorevole, venendo da chi parlava per sentito dire, masticando notizie di seconda mano, aggiungendo dettagli con il solo scopo di apparire informato, amplificando giudizi che erano nella maggior parte dei casi luoghi comuni privi di sostanza, buoni sentimenti venduti a saldo, odio e aggressività a piene mani contro i criminali da sottoporre alle pene più sadiche possibili.
«Sono i social, bellezza, e non puoi farci niente» potremo dire parafrasando Hutcheson – Bogart, è la surmodernità della realtà manipolata, dove i fatti perdono la loro durezza per essere sconfitti dalle narrazioni narcisistiche di chi rivendica il proprio bottino di like.
Ma dentro questa storia c’è pure la immortale potenza dell’arcaico, del mondo antico che resiste a ogni forma di declinazione della modernità e si prende il suo posto: il mito dell’uomo nero che rapisce i bambini.
Vecchie paure e nuove tecnologie: l’Uomo nero finisce sui social
In questa storia si sono sovrapposti metodi narrativi dei fatti capaci di coniugare tecnologie sofisticate e antiche forme di persuasione di massa, assieme a suggestioni ataviche e paure collettive capaci di scatenare rancori sociali, sempre utili a costruire un nemico comune, alimentare odio e basse emozioni. Il trionfo di tutto quanto è nella folla festante munita di telefonini che ha atteso davanti alla clinica l’arrivo delle forze dell’ordine con la bambina. I selfie obbligatori per dimostrare di esserci, i video per provare di aver fatto parte di una storia e per poter dire “io c’ero”, la conquista di un like che diventa “l’amen digitale” – come scrive Byung-chul Han – su una vicenda finita bene e che racconta come siamo diventati.