Anche i Lupi piangono: Cosenza perde Di Marzio

Lo chiamavano "Occh'i vitro". Mister e talent scout in una città che lo ha amato ma gli rinfacciava le esperienze catanzaresi. E gli deve la più grande emozione che i tifosi rossoblù ricordino

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Gianni Di Marzio conosceva bene il paradosso di Achille e della tartaruga. E lo applicava. Su un muro di Città 2000, il quartiere dove abitò da allenatore e lavorò da dirigente – la società si era trasferita lì tra un’esperienza e l’altra – del Cosenza, nell’anno culminato con la promozione c’era un adesivo che celebrava l’amore del mister per l’andatura lenta ma costante di quell’animale. Sarebbero stati i piccoli passi a permettere alla squadra di arrivare al traguardo lasciandosi alle spalle le rivali in classifica. Lo diceva spesso Di Marzio e i risultati gli diedero ragione.

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Il Cosenza di Gianni Di Marzio, primo in Serie C1 al termine del campionato 1987-88

“Occh’i vitro”

Lo chiamavano occh’i vitro già all’epoca, quando il politically correct era più lontano della regola dei tre punti a vittoria. Ma sembrava uno di quei soprannomi un po’ cattivi che si affibbiano a un amico ironico, convinti che il primo a riderne sarà lui. Diventò occhio stuartu, con tanto di coro in facile rima col più classico degli insulti locali, poco tempo dopo. Il tentativo dei tifosi rossoblù di ostentare indifferenza nei suoi confronti non riuscì granché bene. Si era ripresentato in città da allenatore del Catanzaro, che pure aveva già guidato fino alla serie A ben prima di approdare a Cosenza. E il calcio in quei giorni era passione viscerale e identitaria, certi tradimenti era difficile mandarli giù in fretta.

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Il Catanzaro di Gianni DI Marzio promosso in serie A: nella stagione 1975 – ’76.

L’uomo che aveva scoperto Maradona

Ma Di Marzio, oltre che di calcio, era uomo di mondo e sulla panchina dei Lupi ci tornò in breve tempo. Una salvezza insperata non bastò per una vera riconciliazione con la città. Quella arrivò quando portò in riva al Crati da direttore generale la sua esperienza di talent scout pochi anni dopo. E che talent scout: era l’uomo che aveva “scoperto” Maradona quando era solo un ragazzino in Argentina. Quel calcio di stadi pieni a mezzogiorno, partite la domenica, numeri da 1 a 11 ed entusiasmo popolare, però, era già al crepuscolo. Rimanevano brandelli di sogno, sepolti sotto il fuoco della passione che per fortuna ancora oggi la tv non ha spento del tutto.

Prigionieri di un sogno

Sogno pieno, e più reale che mai, era stato quello della promozione di pochi anni prima e Di Marzio tornò presto ad esserne l’iconico protagonista nella memoria collettiva. Un eroe, come un simpatico Achille dal tallone giallorosso. E come i giocatori della sua squadra tartaruga che i tifosi ripetono ancora oggi in sequenza, quasi fossero versi di una filastrocca. “Mai più prigionieri di un sogno”, quello del ritorno in B atteso dagli anni ’60, avevano scritto d’altronde in uno striscione in curva gli ultrà quando il trionfo era ormai cosa fatta. E di striscioni ne erano spuntati un po’ ovunque nei quartieri durante i giorni della festa. Perché la città festeggiò per giorni, non una sera soltanto come si fa adesso.

Le scritte sui muri diventano cult cittadino

I ragazzini facevano collette per comprare la vernice e lasciare il loro segno sui muri e nei cortili, fosse anche una semplice lettera B. Pubblicità e proverbi ispiravano le scritte dei più grandi. Alla Massa erano più tecnologici, col telefunkeniano “Potevamo stupirvi con effetti speciali, ma noi non siamo fantascienza: siamo i tifosi del Cosenza”. A via degli Stadi il mitico “L’uomo del monte ha detto Bi”. Il migliore? “Il lupo perde il pelo ma non il B…izio”, probabilmente. Di Marzio, quando glielo ricordavano, sorrideva. A ripensarci, ora che non c’è più, viene da piangere.

 

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