Sono passati 11 anni e mezzo dalla sua morte. E circa 15 da quando conversai con lui nel foyer di un albergo di Parma, dopo uno scambio epistolare che durava da un po’. Non mi pare che Vittorio De Seta, nel frattempo, sia stato sufficientemente celebrato da chi avrebbe dovuto e potuto. Del resto, cos’è “sufficiente” per un artista di quel calibro? E poi, visto che era stato poco celebrato in vita (come succede solo ai più grandi), figuriamoci una volta scomparso. Le scrivo io, due parole in suo ricordo: Vittorio De Seta era innanzitutto un gentilissimo signore, pacato e misurato, forse immerso fin troppo nel suo ideale di un mondo buono da poter recuperare, innocente testa tra le nuvole.

Sinistra e nobiltà
Aveva natali pesanti, Vittorio De Seta. Il nonno paterno (prefetto un po’ ovunque e poi sindaco di Catanzaro a fine Ottocento) e suo fratello erano i marchesi Francesco ed Enrico, deputati, poi senatori all’inizio del Novecento, nati a Belvedere Marittimo. Il nonno materno era invece il conte piemontese Giovanni Emanuele Elia, inventore in ambito militare.
Padre e madre? Separatisi prestissimo. Erano il marchese Giuseppe De Seta, scomparso assai prematuramente, e la ben più nota Maria Elia, meglio conosciuta come la marchesa De Seta Pignatelli, per aver sposato in seconde nozze il principe Valerio Pignatelli di Cerchiara. Non aggiunse, invece, un terzo cognome per non aver mai sposato il suo terzo storico compagno, il quadrumviro Michele Bianchi col quale, appena poteva, fuggiva nella sua torre silana.

Ma stavamo parlando di Vittorio De Seta: bene, al maestro tutto ciò stava in realtà molto molto stretto. Uno dei suoi film – il più intimo, il più tormentato – racconta proprio del rapporto difficilissimo con una madre d’acciaio che lo ritiene solo un sognatore inetto, disumana, dura, insensibile. Con un padre impalpabile e denigrato dalla vedova. Con un fratello maggiore a lui preferito e poi scomparso anzitempo. E, soprattutto, con un milieu aristocratico che cozzava non poco con la visione antropologica sincera di un artista vicino al popolo – e non a parole –, alla semplicità e persino al sacrificio.
La “colpa” di Vittorio De Seta
Come conciliare il fatto di essere nato nel sontuoso e arabeggiante Palazzo Forcella, poi De Seta, alla Kalsa di Palermo, con quello di essere vicino di casa di quella cultura di sinistra più intransigente – quella degli anni ’60 del Novecento – senza scadere nella parodia da gauche caviar?
Si concilia così: vai in analisi da Ernst Bernhard (e ci porti pure Fellini), e non perché ci stiano già andando Manganelli, Bazlen, la Campo e la Ginzburg ma perché credi di non avere altra via d’uscita.

Così mi scriveva nell’autunno del 2008 e riporto fedelmente queste poche frasi ancora inedite: “C’è stato all’origine della mia esistenza (…) un evento – al quale ovviamente ero estraneo – che mi ha segnato con un marchio d’infamia e di vergogna. La mia vita, il mio lavoro, sono stati segnati dalla necessità del riscatto di questa ‘colpa’ e, nello stesso tempo, dall’identificazione con le classi umili, diseredate per eccellenza. Dal ’58 ho fatto analisi psicologica junghiana con Bernhard, fino al ’65 (…). Avevo problemi: mai visto mio padre, nessun rapporto con mia madre, famiglia ricca, aristocratica ed infine due anni di deportazione in Austria (‘43/’45) (…). Non si faceva molta cultura a casa mia (…). Ricordo che tornato dalla prigionia restai in casa mesi a leggere Benedetto Croce. Poi fui attratto dal marxismo, avevo bisogno di una fede, di un’appartenenza, uno schieramento. Ma intimamente non ero convinto, tanto che restai iscritto al partito comunista un solo anno (‘47/’48)”.
Dieci piccoli capolavori
La mia corrispondenza con De Seta aveva avuto inizio quando ad una finale dei Mondiali di calcio (Europei? Mai fatta troppa attenzione) preferii la proiezione al cinema dei suoi cortometraggi appena restaurati dalla Cineteca di Bologna. Si trattava dei suoi primi dieci brevissimi capolavori, girati tra il 1954 e il 1959 tra Sicilia, Calabria e Sardegna (e rieccoci con la Calabria come terza isola).
Servirebbero pagine e pagine per commentarli a dovere tutti e dieci (uno di essi, Isole di Fuoco, vinse a Cannes nel ’55). Mi limito a segnalare i soli due girati in Calabria:
- Lu tempu de li pisci spata
- I dimenticati
Il primo è girato nelle acque al largo di Scilla e documenta una battuta di pesca, appunto, al pesce spada, compiuta con metodo più che tradizionale (l’unico, del resto, ancora praticato all’epoca in quella zona).
Il secondo racconta del giorno di festa per antonomasia nell’ultraperiferico paese di Alessandria Del Carretto, che ancora nel ’59 si poteva raggiungere solo a dorso di mulo: il giorno della paganissima festa della pita.
Poi arrivò il cinema vero, i film ‘canonici’, i lungometraggi. E poi anche alcuni prodotti per la televisione: mirabile, e insuperata, la serie Diario di un maestro, del 1973, con l’eccezionale Bruno Cirino.
La Calabria di Vittorio De Seta
Ma Vittorio De Seta non dimenticò la Calabria. Anzi, svernava tutti gli anni nella sua antica masseria di Sellìa Marina, in contrada – noblesse oblige – Feudo De Seta, dove il regista chiuse poi gli occhi. Tornerà infatti a filmare la Calabria in altre due opere, ovvero nel documentario In Calabria (del 1993) e nel tardo (e più dimenticabile) Pentedattilo – Articolo 23 (2008), episodio del film Human Rights for All.
Il secondo è una breve metafora del ripopolamento del paese, abbandonato da tempo, da parte di una comunità di migranti. Il primo è un capolavoro vero, e ne consiglio assolutamente la visione.

È la testimonianza di una Calabria – a 360° dal Pollino a Polsi – svenduta, di una Calabria fallita, che ha barattato una sua propria identità col baratro del progresso sperato, inattuato, neppure col miraggio dell’Università, delle fabbriche abbandonate e delle cattedrali nel deserto. E con uno sguardo malinconico a chi nel 1993 allestiva ancora carbonaie, faceva la ricotta con le mani rovinate, cantava in greco antico nelle chiese di rito bizantino e si riuniva più serenamente attorno a un maiale da sublimare. Altrettanto meravigliose, per inciso, alcune tracce liturgiche inserite nella colonna sonora, ed eseguite dalla Corale greco-albanese di Lungro.
Vittorio De Seta era un figlio, anzi, un nipote di Calabria che con i suoi occhi e con la sua sensibilità ne ha disegnato un ritratto delicato e rassegnato.
Cosa ne resterà? E chi avrà scrupoli e talento tali, dopo di lui?