Enodotti, sbornie killer e tanto aceto: il vino calabrese tra mito e storia

Dal Pollino allo Stretto oggi si producono bottiglie di grande qualità. Ma la terra che gli antichi greci ribattezzarono Enotria per secoli non ha brillato in questo campo. Un viaggio tra eroi olimpici, osti senza scrupoli, vitigni scomparsi e sfide a "patrune e sutta" che finivano con morti ammazzati

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Il vino che si produce oggi in Calabria è di ottima qualità e non paragonabile a quello del passato. In un saggio sull’economia campestre del 1770, poiché l’industria enologica locale produceva vino cattivo, Grimaldi auspicava che i proprietari introducessero nelle loro terre fattoj alla francese e assoldassero vignaioli forestieri.

Questi esperti avrebbero dovuto insegnare come impiantare le vigne, scegliere i vitigni, il tempo per vendemmiare, il modo per raccogliere, spicciolare e spremere le uve, la durata per la fermentazione del mosto nei tini, le modalità d’imbottare il vino, colarlo, trasmutarlo, governarlo e conservarlo. Tutte queste cose in Calabria si facevano arcaicamente e al «rovescio». E così i vini erano fumosi, torbidi, malsani, perniciosi, spiacevoli, di poca durata e inadatti al trasporto.

Aceto un po’ ovunque

Nell’Inchiesta Murattiana si legge che alcuni vini della regione erano buoni e rispondevano «ai gusti della digestione» ma la maggior parte erano scadenti perché prodotti senza nessuna arte. Le varie specie di uve che avevano diversa maturazione si raccoglievano insieme e si pigiavano nei palmenti a piedi nudi senza togliere raspi e acini corrotti. In un saggio sull’agricoltura calabrese del 1848, Tucci scriveva che la produzione vinicola era condotta con metodi allo «stato dell’infanzia».

La piantagione dei vitigni si eseguiva barbaramente. Non si concimava il terreno, non si effettuava la potatura. Le uve erano sostenute da pali che cadevano al primo soffio di vento. Le varie uve erano raccolte insieme e messe alla «rinfusa» nei tini, cosicché una parte era guasta e un’altra acerba. Non si effettuava una selezione dei grappoli «viziati», gli strettoi erano arcaici, le botti inadatte e il vino diventava aceto.

Nostalgia canaglia

In alcuni libri di cucina si coglie spesso una nostalgia per i cibi semplici, sani e genuini del passato. Il fatto che un tempo i prodotti agricoli fossero meno soggetti a trattamenti, però, non implica che il cibo fosse più buono, sano o genuino. Il pane era così duro che per consumarlo bisognava bagnarlo, il vino così aspro e torbido da provocare vomiti e mal di testa, l’olio così rancido e puzzolente da essere buono solo come combustibile.

Le autorità intervenivano senza sosta per impedire la vendita nelle fiere e nei mercati di frutti acerbi, grani marci, pani trattati con sostanze dannose, pesci putrefatti, carni di animali morti per malattie e vini adulterati con sostanze velenose. Anche in passato erano diffuse pratiche di sofisticazione degli alimenti e alcuni di questi, come il vino, erano talmente adulterati da provocare gravi malattie o condurre alla morte.

Il vino taroccato

Nel Settecento il vino subiva tali livelli di sofisticazione che, per i frequentatori delle cantine, da «balsamo della vita» diventava «bevanda di morte». Grossisti, negozianti e tavernieri senza scrupoli per aumentare la quantità aggiungevano acqua e, per mutare il colore, migliorare il sapore, favorire la conservazione e occultare i difetti, introducevano nelle botti «droghe malefiche». I vini prodotti a volte erano manipolati con vari ingredienti «per farli somigliare a quelli forestieri»; quelli di scarsa qualità, trattati con varie sostanze chimiche, diventavano forti, frizzanti, dolci e dal colore intenso.

Nel 1849 uno studioso di Cirò annotava che, per soddisfare i clienti che da qualche anno ricercavano un vino rosso cupo, brillante e spiritoso, i produttori non esitavano a mettere nelle botti scorze di quercia, sugo di more e altre materie coloranti. Si utilizzavano zolfo, arsenico e gesso per rendere i vini durevoli; acquavite, sidro e alcool per aumentarne gradazione e sapore; allume, colla di pesce, chiare d’uova e gelatine animali per farli diventare meno torbidi; cenere, calce, potassio, rame e piombo per correggerne l’acidità; vetriolo, allume e ferro per mutarne il sapore; sandalo rosso, zucchero abbrustolito, bacche di sambuco, more e mirtilli per dare colore.

Annate da evitare

Negli anni in cui i vitigni erano colpiti da malattie o distrutti dalle intemperie, per soddisfare la forte richiesta, sul mercato circolavano clandestinamente vini completamente artificiali prodotti mischiando acqua, alcool, cremore di tartaro e coloranti vari. I vini adulterati provocavano «avvelenamenti saturnini», violenti dolori intestinali, palpitazioni di cuore, soffocazioni, ansia, tremori, vertigini, vomito, debolezza, perdita d’appetito, ubriachezza, malattie nervose. A volte, persino paralisi degli arti e morte. Le autorità difficilmente riuscivano ad individuare i vini contraffatti e i consigli degli esperti per accertare la presenza di sostanze tossiche erano inutili perché richiedevano l’uso di gabinetti scientifici.

Mito e storia

L’amore per la propria terra spinge spesso a scambiare il mito per storia. In alcuni opuscoli pubblicitari si legge che il vino prodotto a Cirò è l’antico Krimisa che si offriva agli atleti di ritorno dalle Olimpiadi 2.500 anni fa. Si sostiene che lo stesso Milone, vincitore di sei gare nella lotta, fosse un gran bevitore di Krimisa e, citando Teodoro di Ierapoli, riuscisse a ingurgitare dieci chili di carne, dieci di pane e tre boccali di vino. I Greci approdati sulle coste dello Jonio chiamarono la Calabria Enotria, terra del vino, e si racconta che se ne producesse così tanto che a Sibari, per facilitarne il trasporto, furono costruiti “enodotti” che dalle colline arrivavano al porto.

Una statua di Milone da Crotone esposta al Louvre di Parigi
Una statua di Milone da Crotone esposta al Louvre di Parigi

È difficile credere che Milone mangiasse venti chili tra carne e pane ad ogni pasto. Così com’è difficile credere che i Sibariti trasportassero il vino dalle colline al mare come si fa per metano e petrolio. È difficile anche credere che nel territorio di Cirò per oltre venticinque secoli gli abitanti abbiano coltivato lo stesso vitigno e bevuto lo stesso vino. Nel 1792 Luigi Grimaldi scriveva che la concorrenza dei viticoltori forestieri aveva sconvolto l’industria vinicola nei territori di Cirò, Crucoli e Melissa. La necessità di aumentare la produzione aveva spinto i proprietari a piantare vitigni stranieri, con il risultato che il vino nuovo, pur adattandosi al gusto «grossolano» delle persone che ne facevano «stravizzo», era particolarmente cattivo e andava facilmente a male.

Addio agli antichi vitigni

La maggior parte degli antichi vitigni calabresi che davano un vino «squisitissimo», erano stati sradicati per piantare una specie importata, detta castiglione che, pur producendo uva in abbondanza, dava un vino di sapore «ordinario» e di «poco durabile qualità». Nel 1849, Pugliese annotava che, verso la fine del Settecento, le uve nere di Cirò erano aglianica, santa severina, lagrima, canina e piede longa e le bianche greca e pizzutella. Lo studioso, tuttavia, precisava che nel giro di cinquant’anni i proprietari avevano introdotto decine di uve straniere da mosto e da tavola.

Le bianche da tavola erano:

  • moscarella
  • malvasia
  • agostarica
  • vesparula
  • zibbibbo
  • sanginella
  • duraca
  • nocellarica
  • uva pietra
  • corniola
  • zinna di vacca
  • zuccaro
  • cannella
  • catalanesca
Vigneti a Cirò Marina
Vigneti nella Cirò Marina dei giorni nostri

Le bianche da mosto erano invece:

  • donna laura
  • greca
  • sprumentino
  • scilibritto
  • guarnaccia
  • pizzutella
  • scricciaruola
  • mantonico

Le uve nere da tavola e da «stipa» erano damascena, duracina, pruna, cerasuola, testa di gallo, corniola, zinna di vacca, greco, ruggia o roja.
Infine, quelle nere da mosto erano gaglioppo, piede longa, infarinata, lagrima, tenerella, sanseverina, canina e norella.

“Patrune e sutta”

Nella metà dell’Ottocento, secondo una statistica governativa, in 72 paesi della Calabria Citeriore il consumo di vino era discreto, in 76 era scarso e in 3 nullo. In genere si beveva in occasione delle feste o nelle 2.212 cantine sparse nella provincia e, non a caso, il redattore dell’inchiesta scriveva eloquentemente: «o niente o sbornia». Si consumava vino giocando soprattutto nelle taverne a patrune e sutta, padrone e sottopadrone. Colui che vinceva al tocco si chiamava padrone e poteva bere tutto il vino che voleva. Il sottopadrone, invece, poteva impedire di bere alla persona invitata dal padrone. Il meccanismo del passatempo era perverso e creava tra i partecipanti forte tensione, aumentata dagli effetti dell’alcol.

In una prammatica della Gran Corte della Vicaria del 26 giugno 1756 si legge: «Il giuoco di Padrone e Sottopadrone è dell’istessa maniera, ma queste due sono le persone, che dispongono del chi deve bere. Onde coloro, che in tal gioco, anche vincendo, son privati per altrui strano capriccio del bere, resi corrivi, dando in escandescenza tale, che privati del vero lume della ragione promuovono delle risse, per cui sortiscono ferite, ed anche omicidj; anzi col tenersi dette bettole, e casini aperti quasi che le notti intere, maggiormente nella continuazione delle crapule si fomentano le occasioni a’ disordini, all’offesa del Sommo Iddio, e a tutte le altre discolezze, che possano immaginarsi, specialmente allorché sienvi donne che in tal luoghi per lo più si conducono o vi fan dimora». Visto l’andazzo, il gioco fu severamente proibito. Ma, a quanto pare, i provvedimenti non sortirono alcun effetto.

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