Vincenzo Talarico, “chi era costui”? Nato ad Acri (Cs) nel 1909 e morto a Roma nel 1972, Vincenzo Talarico, in un’epoca di grandi passioni e di scarsi mezzi, ha rappresentato l’icona del giovane provinciale calabrese che tenta la fortuna e “il successo delle arti” nella grande città capitale, rivestendo in concreto i panni di una sorta di eterno idealtipus del calabrese in commedia. E certo, ai suoi tempi, che furono quelli che per la storia della nazione intercorrono tra il fascismo, il neorealismo, la ricostruzione e gli anni del boom economico non fu esattamente un Carneade.
Calabresi della diaspora
Talarico è stato infatti molte cose assieme: giornalista, critico teatrale, scrittore, sceneggiatore e attore. Un acrobata della parola scritta e dell’eloquio letterario, un uomo colto, divertente, dalla vita eccentrica e fantasiosa. Un personaggio che merita un posto tra gli indimenticabili, anche se oggi se lo ricordano in pochi. Talarico è infatti un altro di quei folli, geniali ed eccentrici calabresi della diaspora che assieme a grandi artisti, scrittori e comprimari come Mimmo Rotella, Leonida Repaci, Corrado Alvaro, Giuseppe Selvaggi e Raul Maria de Angelis, tutti vissuti Roma a cavallo tra le due guerre fino agli anni del boom, poterono diventare qualcosa e qualcuno solo fuori dall’asfissia provinciale dei paesi d’origine e dalle piccola società delle città provinciali della vecchia Calabria.
Con Leopoldo Trieste, Talarico fu uno di quei “calabresi in commedia” del cinema italiano del dopoguerra; entrambi picari ingegnosissimi e stralunati, che hanno attraversato il secolo passato lasciando tracce di sé talvolta luminose e degne di ricordo non solo nel cinema popolare ma anche nella vita culturale del Paese, restando spesso ignoti tra le strade di casa, proprio laddove la loro avventura aveva preso l’avvio.
A dispetto della biografia ricca di incostanti lampi di genialità e di smaglianti espedienti letterari, Talarico non era affatto un personaggio culturalmente effimero e valetudinario. Prima di tentare l’avventura rocambolesca del cinema, la sua penna di notista accreditato nei palazzi del potere era temuta per l’umore sarcastico e l’acuminata ferocia con cui sceglieva i suoi bersagli. Ai tempi del pieno consenso al fascismo i suoi strali non risparmiarono il Duce, che lo apostrofò come “ignobile libellista”.
Il giornalista che amava la dolce vita
A lungo giornalista e critico cinematografico per La Stampa, L’Europeo e L’Espresso, Talarico faceva parte di quel memorabile gruppo di intellettuali liberali che ruotavano attorno a Leo Longanesi, come Ercole Patti, Sandro De Feo e Mario Pannunzio, di cui Talarico divenne stretto divenne collaboratore per le pagine de Il Mondo.
Talarico, come Leopoldo Trieste, amava il cinema e le belle donne; due buoni motivi per stare a Roma e attraversarla in lungo e in largo in quegli anni formidabili. Talarico visse la sua stagione di notorietà mentre a Roma la fabbrica dei sogni esplodeva nella pienezza cinica e gaudente degli anni della “dolce vita” e di via Veneto. Lo si ritrova assiduo frequentatore di tutti i santuari di strada della cultura del tempo. Trascorreva le sue giornate di “flanellista” tra il Caffè Aragno o in mezzo ai crocchi riuniti ai tavolini di Rosati o Canova.
Qui lo si ritrovava a chiacchierare e far notte con gente come Emilio Cecchi, Roberto Rossellini e in confidenza con scrittori e artisti di primo piano della scena culturale romana di quegli anni come Palazzeschi, Cardarelli, Moravia, Ungaretti, Guttuso, Flaiano, Repaci, Brancati o Alvaro. Già giornalista satirico e critico teatrale, prima di diventare anche sceneggiatore di successo (vinse un Nastro d’argento per il soggetto e la sceneggiatura di Anni facili), Talarico, giovane avvocato mancato, fuggito presto dal tedio e dalle ristrettezze del suo paese calabro, aveva – soprattutto – una autentica fissazione per il cinema, e così fece di tutto anche per indossare al cinema anche i panni dell’attore. Ne vennero o fuori parti da caratterista formidabili e iconiche.
Nel cast di Un giorno in pretura
È lui, infatti, avvocato davvero ma senza aver mai esercitato per un giorno neanche alla pretura del paese, che spesso indossa toga e tocco in camei indimenticabili ed esilaranti. Lo ritroviamo così nelle vesti di avvocato in numerosi film e commedie di grande successo popolare, come in Un giorno in pretura. In quella commedia del 1953, diretta da Steno, è lui l’avvocato magniloquente e sgarrupato che difende la causa davanti alla corte e ai giurati, ricorrendo ad effetti da leguleio di paese e a stralunate formule da azzeccagarbugli.
Il suo assistito è il grande Alberto Sordi, che nel film è Nando Moriconi, il giovane tontolone di borgata detto l’americano, arrestato perché sorpreso nudo per strada. Talarico sul set cingeva la toga con così tanta maestria che a lui toccò quasi per antonomasia la parte dell’avvocato difensore che portava inevitabilmente alla condanna del povero imputato, come di seguito in altre commedie memorabili, Il bigamo o Il vigile.
Totò gli stacca un orecchio a morsi
Dotato di una notevole presenza scenica e di un aspetto da notabile borbonico, oltre che di una maschera teatrale naturale, caratterizzata da un difetto di vista che ne rendeva il volto e la mimica involontariamente comiche – aveva l’occhio sinistro fortemente strabico, negli anni cinquanta Talarico apparve come caratterista di lusso in numerose commedie per il cinema, alcune delle quali da lui scritte portavano la sua firma anche tra gli sceneggiatori. Per il pubblico popolare divenne subito un personaggio noto e perfettamente riconoscibile. E in carriera partecipò a decine di film.
Con il suo eloquio prolisso, rotondo e polveroso “Don Vincenzino” fu anche l’emblema dei funzionari ministeriali vacui e ipocriti e dei notabili democristiani in ascesa, a cui diede numerose volte voce e volto. Lo si ricorda come comprimario di rilevo e caratterista enfatico anche in Dov’è la libertà?, un film commedia dal sapore malinconico e amarognolo, diretto nel 1954 da Roberto Rossellini da una sceneggiatura teatrale di Leopoldo Trieste (di cui Talarico fu al lungo amico), quando Totò, al culmine di una scenetta memorabile, gli stacca un orecchio a morsi.
Fu poi l’onorevole Borgiani di un film culto di quella stagione come Un americano a Roma, in una scena dove Sordi fa polpette della sua rispettabilità; e ancora, il nuovo tipo del “funzionario Rai” che formula un giudizio avverso stigmatizzando il difetto del candidato Sordi che si presenta ai commissari sfoderando la sua sorridente dentatura equina in Dentone, episodio gustosissimo del film I mostri.
Una faccia da cinema
Questi suoi piccoli ruoli da caratterista e i brillanti numerosi cameo impersonati col tempo fecero di Talarico un attore niente affatto improvvisato. Prova ne è che la sua voce stentorea e il suo volto stralunato compaiono in una lunga sequela di film e di commedie famosissime. I ruoli in cui Talarico eccelleva sono quelli del burocrate tronfio e intrigante o del retore che sfoggia la sua dotta scilinguagnola da notabile di paese, o quando impersona con le sue sghembe espressioni facciali da teatro greco, il vecchio satiro che punta la sua preda femminile con lo sguardo liquido di un rettile. Queste personalità multiple indossate con disinvoltura e divertimento per il cinema popolare in veste di caratterista, sono anche altrettante prove di una consapevolezza autoironica e di un sarcasmo intellettuale che non si dimenticano, e che in Talarico furono anche caratteristiche spiccate dell’uomo e dell’artista.
In seguito Talarico si confermò soprattutto come sceneggiatore per il cinema, versatile tanto sul registro della commedia popolare (Pane, amore e gelosia, Il bigamo), sia per il suo impegno su pellicole che affrontavano temi meno facili, e in alcune prove d’autore dal piglio certo più polemico e aggressivo (Anni facili, Il moralista, Anni ruggenti). Dimostrandosi capace com’era anche con la scrittura di analizzare con asprezza e profondo acume critico lo spirito di qui tempi.
L’ultima notte dei “casini”
Amico di Vitaliano Brancati – scrivono insieme per il teatro La giornata del poeta -, Vincenzo Talarico nel 1953 firmò con proprio con Brancati la sceneggiatura di Anni facili, insieme a Luigi Zampa, a Sergio Amidei. E sempre in compagnia di Luigi Zampa e Sergio Amidei, Talarico, collaborò poi alla sceneggiatura di Anni ruggenti.
Talarico era però essenzialmente un finissimo e colto uomo di lettere e un assiduo frequentare di ambienti letterari. Nella Roma che attraversa le guerre è amico di vecchia data di Cardarelli, di Ennio Flaiano e di Mario Soldati. Indimenticabile è un suo articolo in cui ricorda l’ultimo giorno di apertura dei casini, chiusi nel 1959 dalla legge Merlin, trascorso a fare un nostalgico giro per il passo d’addio alle “signorine” delle migliori case chiuse di Roma in compagnia di un ineffabile Mario Soldati. Ma in altri momenti Talarico partecipa con Maria Bellonci e Guido Alberti alla fondazione del Premio Strega, di cui è tra i primi prestigiosi promotori.
Nomignoli per tutti
E sarà sempre considerato da allora tra i giurati più valorosi e influenti. Figura critica sempre autorevole e presente alle carambole e alle scaramucce che vivacizzavano il mondo degli scrittori e dei giornalisti che contavano in quel rarefatto e stravagante mondo letterario romano. Oltre agli articoli e ai libri della penna di Talarico restano infatti memorabili proprio per certi suoi blasoni impietosamente affibbiati ai suoi sodali letterati.
Faceva a gara in questo con un altro amico buontempone della sua cerchia, lo scultore emiliano Marino Mazzacurati. Nomignoli cinici e spassosi che scivolati dalla sua penna acuminata, restavano poi impressi per sempre sui personaggi che entrambi prendevano di mira. Come “Supercortomaggiore” (Leo Longanesi); “Cecchi dice sì, Cecchi dice no” (Emilio Cecchi); “Il più grande Poeta Morente” (Vincenzo Cardarelli); “L’Amaro Gambarotta” (Alberto Moravia); “Il brutto addormentato nel basco” (Alberto Savinio); L’incantatore di sergenti” (Filippo De Pisis); “La salma” (Ercole Patti); La picassata alla siciliana” (Renato Guttuso); “Il Cavaliere del Lavoro altrui” (Sandro De Feo).
Vincenzo Talarico “il lepre”
Non sfuggiva alla regola del soprannome neanche lui, Vincenzo Talarico. Per la sua cerchia di letterati, artisti e amici del cinema, “don Vincenzino” era “Il lepre”, nomignolo appiccicatogli per la sua stramba fisionomia: occhi fortemente strabici, nasone, faccia un po’ storta e sgrugnata, labbro superiore sporgente, ma il soprannome pare gli fosse stato appioppato anche per la rapidità con cui, alto e ben piantato, attraversava a grandi lunate piazza del Popolo spostandosi dal gruppo che sedeva davanti a Rosati a quello che si trovava da Canova, per puntare la nuova soubrettina che voleva comicamente concupire.
Talarico ha vissuto quegli anni indimenticabili come un altro grande outsider intellettuale con cui condivise a Roma fama e avventure da picari di provincia, il grande Giancarlo Fusco. Come Fusco, Talarico ruppe fragorosamente l’argine di conformismo della società letteraria romana, passando allegramente da un campo all’altro di arti e mestieri con grande divertimento e talento; dal giornalismo alle sceneggiature, dalla narrativa alla critica fino ai soggetti per film, non disdegnando di rappresentare ironicamente se stesso in film comici che lo resero noto al grande pubblico.
Ma la sua specialità era di fare della propria vita materia d’arte. Ancora oggi restano poco note e sottovalutate le sue doti di scrittore, la sua finezza culturale allegramente dissipata in mille imprese e dispendiosi rivoli vitali.
Uno scrittore originale
Qualità di scrittura e di calibro intellettuale che, in una rivista intitolata Confronto, gli viene riconosciuta invece già in quegli anni della dolce vita da una scrittrice criticamente seria ed esigente come Elena Croce, che riferendosi a Talarico ne scriveva così: «La figura di Talarico, così rappresentativa della Calabria come di una certa Roma degli anni Cinquanta e Sessanta, chiede di essere molto approfondita. Come tutti i grandi umoristi, Vincenzo Talarico, aveva una personalità molto riservata, quasi ermetica: non però al punto da non lasciare penetrare l’essenziale. E cioè la sua grande larghezza d’idee e il suo animo generoso, la sua gentilezza profonda, l’eleganza con cui non faceva mai pesare la sua grandissima cultura; e la mancanza di vanità per cui non pretese mai di essere riconosciuto per ciò che egli era: un prosatore squisito».
Di lui oltre a un profluvio di critiche teatrali e cinematografiche e prose giornalistiche, restano anche alcuni notevoli e trascurati romanzi. Raccontò la sua fuga da Roma occupata nel 1943, assieme a Mario Soldati e Leo Longanesi, in un delizioso libro intitolato Otto settembre. Letterati in fuga (con disegni di Mino Maccari). Altri suoi libri sulla Roma degli anni Quaranta e Cinquanta, oggi sono quasi impossibili a trovarsi, come Mussolini in Pantofole, Pasquino insanguinato e I passi perduti. Meriterebbero tutti di essere ripubblicati.
Chi legge questi libri oggi si rende conto di come Talarico fosse molto di più di un cronista e di un brillante perdigiorno mondano. Era uno scrittore originale che sapeva cogliere gli aspetti inquietanti e incongrui della realtà per alleggerirli con grazia e umorismo.