Nel 1952 il giovane Andrea Camilleri, ventisettenne neodiplomato all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica, dove successivamente insegnerà regia, compra un libro di un autore calabrese a lui ancora sconosciuto. Ad attirare la sua attenzione fu il titolo Antonello capobrigante calabrese, dramma in cinque atti di Vincenzo Padula, scritto nel 1850. L’aneddoto è raccontato dallo stesso Camilleri nel docufilm La penna di Bruzio, una coproduzione dell’associazione Stato delle Persone, Fondazione Vincenzo Padula e dalla CineDue dei fratelli Aragona, distribuito da RAI Storia. Il film, nato nel 2016 da un’idea di Mattia Scaramuzzo, per la regia di Giulia Zanfino, ha visto la partecipazione, oltre che dello scrittore empedoclese, anche di Carlo Verdone e Riccardo Iacona.

Briganti, una mistificazione storica
Camilleri racconta di essere stato catturato dalla suggestione delle parole capobrigante e calabrese, questo a causa di una sua personale e radicata convinzione, relativa a una mistificazione storica, avvenuta subito dopo l’unità d’Italia, in merito al problema del brigantaggio. Un vecchio specchietto riassuntivo del Comando militare per la repressione di Capua, sempre secondo il racconto di Camilleri, riportava un consuntivo dei briganti uccisi e arrestati dal 1861 al 1863; si trattava di circa 3780 morti e oltre 4000 detenuti. Proprio intorno a questi numeri che nasce il dubbio attorno al quale Camilleri si chiede se tutti i meridionali erano diventati briganti o se si tacciava di brigantaggio la rivolta contadina di chi chiedeva nient’altro che pane e lavoro.
Una riflessione che ci spinge a parlare delle cause di fenomeni sociali violenti all’indomani di una unificazione nata su presupposti politici e amministrativi ideologicamente divisivi. Non bisogna dimenticare che il nuovo Regno d’Italia presentava un’enorme disparità tra Nord e Sud e per unificare veramente il Paese c’era bisogno di infrastrutture, di un esercito, di leggi, di alfabetizzazione, di riforme agrarie e industriali. C’era anche la necessità di adottare le stesse unità di misura, la stessa moneta e una lingua capace di parlare a tutti. La complessa questione meridionale, strettamente connessa al fenomeno del brigantaggio, trovò con l’attuazione della Legge Pica del 1863, la legittimazione della violenza repressiva di un fenomeno sociale determinato da povertà, diseguaglianza, ma anche da brutalità di contadini rozzi e ignoranti.
Vicenzo Padula: un intellettuale profondo
Proprio sulla causa dei problemi e sulle azioni repressive di un fenomeno di portata storica come il brigantaggio si concentra il pensiero dell’abate Vincenzo Padula di Acri che, attraverso le pagine del giornale Il Bruzio, richiama l’attenzione sulle complesse situazioni della Calabria e di tutto il meridione post unitario. Padula, lungimirante intellettuale, ma anche scrittore ironico, attento giornalista, è stato definito più volte un antropologo, ma lui non è stato solo un attento osservatore della cultura del suo tempo, quanto un sociologo, o meglio ancora possiamo definirlo un etnologo che ha saputo considerare fatti e circostanze nei loro processi di trasformazione.
Padula, nonostante l’isolamento culturale della Calabria, pur vivendo la realtà dell’entroterra, affronta i temi del suo tempo in una produzione letteraria in grado di concretizzarsi anche nella scrittura teatrale, cosa non usuale in una realtà senza nessuna tradizione drammaturgica. Antonello capobrigante calabrese è ambientato tra i monti della Sila, precisamente a Macchia Sacra. È lo stesso Padula a scrivere che i briganti agiscono nella foresta e, siccome in ogni paese d’Italia, dopo che i Borboni se ne sono andati, c’è gente che ruba e che uccide, nelle altre città, come in quelle del Piemonte, della Lombardia e della Toscana, azioni ancora più gravi di quelle che accadono in Calabria si concretizzano nelle case.

Una questione privata? Non proprio
Le vicende narrate nell’Antonello sono quelle di un gruppo di briganti nascosti nei boschi della Sila, impegnati nel preparare il rapimento del ricco galantuomo Brunetti e di suo figlio Luigino. La storia è quella della giovane Maria, moglie di Giuseppe, che dopo aver subito violenza da parte di Brunetti si ritrova ad assistere all’omicidio del figlio neonato, soffocato dallo stesso Brunetti. In preda alla disperazione Maria convince Giuseppe a farsi uccidere e a quel punto il giovane, decidendo di farsi brigante, è accolto dal capobrigante Antonello tra i boschi della Sila.
La narrazione di una storia in apparenza privata, si trasforma in una rivendicazione collettiva contro i soprusi di un potere destinato, davanti alla legge, a rimanere impunito. Il dramma non si limita a raccontare di una storia d’amore finita in tragedia, ma parla della condizione sociale in cui versava la Calabria, oppressa dal potere legato alle logiche del latifondo e che, inevitabilmente, si riflette nella tracotanza del ricco Brunetti. Emerge chiara la sfiducia verso la giustizia, quasi come se Padula volesse giustificare la rabbia di un gruppo di persone che, per la loro stessa natura di briganti, sono destinati a rimanere poveri. I giorni durante i quali si svolge l’azione sono quelli che passano tra la cattura dei fratelli Bandiera, avvenuta sul Colle della Stragola, nel territorio di San Giovanni in Fiore, la loro detenzione nel carcere di Cosenza e la fucilazione, insieme ad altri sette compagni, per volere di re Ferdinando II di Borbone, nel Vallone di Rovito il 25 luglio 1844. È lo stesso Antonello a far recapitare una lettera ad Attilio ed Emilio Bandiera, offrendo, senza successo, l’aiuto dei briganti per farli scappare dalla prigione.

Vincenzo Padula e Lord Byron
La figura di Antonello capobrigante riveste il ruolo di un eroe moderno, tormentato davanti alle ingiustizie del suo tempo, in questo non è difficile cogliere gli aspetti romantici di un byronismo presente nella letteratura di quegli anni. George Byron, tra il 1818 e il 1823 è in Italia per il suo personale Grand tour, è la sua poetica penetra anche nella letteratura calabrese. I punti di convergenza tra Padula e Byron sono proprio quelli che si riflettono nel personaggio del capobrigante Antonello: il sentimento di ribellione verso un contesto sociale guardato con disprezzo a causa di quei privilegi riservati a pochi, l’imperfezione stessa dell’eroe agitato da una passione distruttiva e non ultimo l’incapacità di portare avanti lotte collettive, quanto piuttosto animato da un individualismo tipico di ogni disperato che lotta solo per se stesso.
La fortuna di Antonello capobrigante è stata quella di aver varcato i confini regionali e di essere stato rappresentato in diverse riduzioni teatrali, televisive e in un adattamento radiofonico del 1960 di Ottavio Spadaro, nel quale Aroldo Tieri interpretava la parte del possidente Brunetti.