Tarantolati di quaggiù, ecco il morso della Calabria

La danza convulsiva e irrefrenabile per eliminare il veleno dell'aracnide. Riti e deliri di un elemento chiave della cultura subalterna

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Il tarantismo in Calabria era diffuso come in Puglia e, nel corso dei secoli, oggetto di studio da parte di scienziati, medici e letterati. Già nel Seicento diversi studiosi stranieri come Kirchmajeri, Muller, Jonston e Madeira scrivevano che le perniciose tarantole nei mesi di giugno, luglio e agosto tormentavano gli agricoltori calabresi causando un «corybanteo furore».

Il fisico inglese Thomas accennava a un certo spider il cui veleno veniva curato dagli abitanti delle Calabrie con una pratica magica attraverso musica, canti e danza. Negli stessi anni, Epifanio raccontava che la regione era invasa dai velenosi falangi tanto che in alcune zone i locali ricavavano dalle loro tele una seta bianca anche se, richiedendo molta spesa e lavoro, non era molto redditizia.
Agli inizi del Settecento il viaggiatore inglese Berkeley annotava che il tarantolismo, malattia provocata dal veleno della lycosa tarantula che sconvolgeva la mente era diffuso specialmente nei paesi pugliesi e calabresi. Francesco Saverio Clavigero affermava che se le campagne romane erano infestate da vipere e le coste adriatiche da zanzare, quelle calabresi erano invase dalle temibili tarantole.

Il ballo di San Vito

Pietro Le Brun raccontava che le ariette eseguite nei villaggi della Calabria per guarire i numerosi morsicati dal ragno si chiamavano «canzoni di san Vito», il taumaturgo in grado di neutralizzare il veleno di quegli insetti. Gianrinaldo Carli sottolineava che in diverse comunità della regione gli avvelenati dalle tarantole, per risvegliarsi dal torpore, erano costretti a piroettare al suono di varie melodie per alcuni giorni fino al completo risanamento. Qualche anno dopo il naturalista Minasi raccolse numerose tarantole nei suoi terreni di Scilla e fece addentare piccioni, galline, lucertole e gatti per dimostrare l’inefficacia del veleno. Era esperto dell’insetto, che descrisse minuziosamente, e si racconta che regalò all’imperatrice delle Russie Caterina II un paio di guanti con bozzoli dell’aracnide ridotti in seta.

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La lycosa tarantula

Tarantola e tarantelle

Nell’Ottocento, l’interesse nei confronti del tarantismo calabrese aumentò notevolmente e i racconti sul rito di guarigione erano spesso contrastanti. Carcano scriveva che la regione era infestata dalle «tarantelle» che, mordendo in tempo d’estate, mettevano addosso una «rabbia» che spingeva a saltellare. Le vittime di quel ragno erano numerose e, poiché per guarire era necessaria la musica, vi erano molti suonatori ben retribuiti che svolgevano questo lavoro. Il medico Antonio Pitaro riferiva di aver assistito a due casi di tarantolismo e raccontava che i contadini per soccorrere le vittime ponevano sulla ferita il falangio schiacciato e due monete bagnate con saliva.

De Tavel, ufficiale francese, appuntava nel suo diario che tra i calabresi era diffusa la credenza che per neutralizzare il veleno della tarantola bisognava ballare la tarantella, una bizzarra danza in cui, alla maniera dei «selvaggi», compivano contorsioni e gesti indecenti che degeneravano in una specie di delirio. Spizzirri raccontava che un giovane del suo paese morso da una tarantola fu condotto da un chirurgo il quale applicò sulla ferita un bottone rovente senza che ciò apportasse alcun sollievo.

Bagni di vino

Il padre mandò a chiamare un noto ciaravularo di Mendicino, che recitò alcuni carmi, sistemò sul capo dell’infermo un mantello di lana e gli fece fare dei bagni di vapore di vino dentro al quale aveva fatto bollire rosmarino e altre erbe. Il ragazzo dopo tre giorni guarì.
La prolifica e spiritosa scrittrice Chaterine Grace Frances Gore, i cui romanzi erano alla moda in Inghilterra, dedicò un lungo racconto a una tarantolata calabrese. Il dottor Magliari asseriva che in Calabria le tarantole era velenosissime e spingeva gli infermi a saltellare tarantelle diverse da quelle della Puglia; in alcuni paesi, invece, i sanitari curavano gli avvelenati senza liuti e chitarre, usando soprattutto vapori di vino aromatizzato con varie piante.
Pugliese informava che a Crucoli, nella Calabria Ulteriore, si praticava ancora l’uso di sanare i trafitti della tarantola facendo ballare gli ammalati fino all’esaurimento delle forze al suono della chitarra.

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Illustrazione della tarantella suonata e ballata nel Meridione d’Italia

Salta e suda che ti passa

Vergari annotava che le tarantole in Calabria erano numerose e i dottori per guarirne il morso usavano l’aceto ammoniacale e farmaci che favorivano la sudorazione, ma il rimedio più diffuso rimaneva quello di far saltellare il paziente per farlo sudare. Il medico Giovanni Nigro di Rossano comunicava che a Cropalati due ragazzi morsicati dalla lycosa tarantula erano guariti con la danza protratta per un mese mentre il dottor Volpe di Nicastro riferiva che in una contrada infestata da tarantole la gente eliminava il veleno mettendo i pazienti in una stufa e allietandoli con chitarre battenti e cantilene.

In una ricerca condotta sul «male del ragno», Achille Costa sosteneva che diversi territori calabresi erano infestati dai terribili falangi e i morsicati avevano una tendenza al pianto o al riso. I contadini chiamavano le tarantole «schette», «vedove» e «maritate» e le catturavano con un frustolo di paglia avvolto in poca seta: lo calavano nella tana e ne prendevano di gigantesche simili a quelle pugliesi.

La melodia della tarantola

Sempre nell’800, Marzano raccontava che in Calabria, la tarantola che mordeva nella stagione estiva produceva smania e irrequietezza e gli infermi, ascoltando la musica, erano spinti ad un convulso volteggiare. Per liberarsi dal veleno del terribile insetto si doveva trovare la melodia dell’aracnide e per questo motivo i parenti assoldavano esperti suonatori di pifferi, zampogne, chitarre e tamburelli.

Ai primi suoni di questi «schiamazzosi» strumenti, la tarantolata emetteva lunghi sospiri, si contorceva, si dimenava e, all’incalzare del ritmo, si alzava dal letto e iniziava una danza frenetica e delirante. I giovani del vicinato si alternavano a ballare con l’ammalata fin tanto che, affranta dalla stanchezza, questa cadeva esausta tra un fiume di sudore che ne leniva i patimenti. Una volta riposata, la donna cominciava nuovamente a sgambettare in maniera furibonda al suono della tarantella e, dopo tre giorni, si metteva a letto ormai guarita.

Vedove e zitelle

Spesso, per animare vieppiù il ballo, alla musica si univa il canto delle comari in cui si rimproverava la tarantola «malandrina» di aver portato la povera ragazza alla rovina. Alla fine del secolo, Pignatari scriveva che i calabresi credevano nel morso del falangio curato col ballo non meno dei pugliesi e dei napoletani e pensavano che se la tarantola era vedova il morsicato preferiva danzare con persone vestite a lutto mentre se era zitella o maritata non badava ai colori. A tal proposito lo studioso notava che, a differenza di quanto sosteneva Aldovrandi, le tarantolate non avevano mai mostrato predilezione per il rosso e il verde, né avevano avversione per il nero poiché le gonne e i giubbetti delle contadine erano colorati con l’indaco.

A Vena, un villaggio albanese, Francesco Bubba durante il rito di guarigione per il veleno del ragno volle cambiare sette vestiti abbigliandosi da signore, da prete, da sposo, da signora e da campagnola.

Quando la banda passò

Agli inizi del Novecento, secondo alcune testimonianze, il tarantismo era ancora presente in Calabria. Lorenzo Galasso di Nicotera, parroco di Comparni, una piccola frazione di Mileto, asseriva che nelle sue zone il volgo era convinto che la tarantola fosse velenosa e, se l’intossicato non guariva tramite il ballo, era messo in un forno ben caldo per circa un’ora. Raccontava di aver visto una giovinetta in salute che, punta dall’insetto, era diventata pallida come la morte e, nonostante spiegasse che altre erano le cause del male, i suoi familiari corsero a chiamare dei suonatori: appena questi cominciarono a suonare, la donna iniziò a gridare e ballare.

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Il tarantismo ha attraversato la storia e la cultura del Meridione d’Italia

La gente riteneva che la morsicata chiedesse abiti da signora, da signorina o da zitella a secondo che la tarantola fosse maritata, zitella o vedova. Secondo l’opinione diffusa, inoltre, bisognava esaudire le richieste delle morsicate e una di loro era così capricciosa che, non soddisfatta degli orchestranti, richiese una banda musicale intera. L’attarantata ballando doveva fare le stesse cose del falangio che l’aveva trafitta fino a tramortire l’insetto che era nel suo corpo e per questo motivo a volte ballava giorno e notte anche per quindici giorni.

L’estrema unzione

Nel momento in cui stava per arrivare la morte del ragno, la giovane sembrava entrasse in agonia, barcollava nella stanza sostenuta dalle amiche e, con un fil di voce, voleva ceri accesi e un sacerdote per l’estrema unzione. Il parroco riferiva che un giorno, chiamato da una famiglia del paese, trovò una femmina stesa a terra e i parenti seduti tutt’intorno pretesero che la ungesse perché così richiedeva l’agonia dell’aracnide.

Intimorito per il tono minaccioso chiese perdono al Signore e con l’olio fece dei segni sulla fronte dell’avvelenata e la benedì con l’aspersorio che avevano portato delle vicine. La tarantata chiuse gli occhi come se fosse davvero morta e le donne continuarono a piangere ma dopo un po’ improvvisamente si alzò in piedi guarita.
Un altro prete, mentre stava dando l’assoluzione a una tarantolata di settant’anni vide che la moribonda, all’udire dei suoni provenienti dall’esterno, si alzò dal letto e come una indemoniata si mise a saltellare e accanirsi contro di lui con fare minaccioso tale da costringerlo a scappare.

Interviene il Comune di Mileto

Galasso informava, inoltre, che nella comunità di Comparni erano state punte dalle tarantole quarantacinque persone e, poiché ogni attività in paese era ferma, per avere cibo bisognò chiedere aiuto al comune di Mileto.

Per un mese nel paese non si fece altro che suonare, cantare e ballare come in una festa e una fanciulla, che presa d’invidia dalle compagne che ballavano si era aggregata a loro, fu picchiata dal padre con un nodoso bastone. Molta gente pensava che le tarantolate fossero furbe donzelle che volevano farsi ammirare come ballerine ma ciò non era molto credibile perché nessuno desiderava dimenarsi per tanto tempo, senza contare che il rito richiedeva una spesa notevole per famiglie che non potevano permetterselo.

Il morso della tarantola

Adriano affermava che la fantasia dei campagnoli calabresi, eccitata da una esagerata suggestione e fomentata dalle più assurde credenze, continuava ad attribuire alla puntura della lycosa tarantula un grave avvelenamento che si manifestava con la taràntula, una danza convulsiva ed irrefrenabile. Così il volgo chiamava indifferentemente con lo stesso nome sia l’animale che gli effetti del suo morso: L’à muzzicatu ‘a tarantula, è stato morsicato dalla tarantola; e tena la tarantula, è affetto da tarantismo.

Raffaele Lombardi Satriani aggiungeva che i contadini individuavano la tarantola pecurara e quaddarara: nel primo caso il sofferente doveva ballare al suono della zampogna; nel secondo caso si doveva accompagnare il ballo con una lira o battendo con una mazza su una pentola. Il morsicato doveva indossare vestiti diversi a secondo se il falangio era di color nero o rosso: se il ragno era di color nero, gli abiti della tarantolata dovevano essere neri, perché si credeva che la tarantola fosse vedova; se invece era screziato di rosso, gli abiti dovevano essere di zita o di zitu (sposa o sposo).
La comare, ritenuta esperta delle segrete cose, aveva un ruolo fondamentale durante il rito: assegnava i compiti ai ballerini, sceglieva le armonie degli strumenti e dirigeva un coro in cui si diceva che la «signora tarantola» aveva trafitto la poveretta al piede e con i piedi sarebbe stata schiacciata.

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