Tutte le celebrazioni dei centenari sono occasioni per scoprire luoghi, emozioni, oggetti nascosti, non solo figure importanti, che hanno segnato la storia di un Paese. Celebrare è di per sé retorico, ma ha un suo intendimento curioso, frizzante. Innesca la gioia della ricerca, dell’incontro, del confronto e del dibattito. A suo modo può essere una rinascita attraverso il caleidoscopio delle nuove prospettive con cui si indaga, attraverso i nuovi strumenti di cui si dispone. È ciò che accade per Stanislao Giacomantonio nel centenario della scomparsa.
La famiglia volle donare le sue carte alla Biblioteca Nazionale di Cosenza, un Fondo ricco di informazioni storiche, sociologiche e antropologiche, non solo musicali, per chi voglia leggerlo e studiarlo come affresco di un’epoca in fermento. Un’epoca mobile che prelude alla prima grande catastrofe militare ma che vede la Calabria subire anche due grandi catastrofi naturali tra il 1905 e il 1908.
Stanislao Giacomantonio e la città
Tra i musicisti cosentini a cavallo tra i due secoli Stanislao Giacomantonio occupa un posto molto visibile. In primis perché a lui è intitolato il Conservatorio della città. Poi, forse, perché ci appare come un personaggio tenero, appassionato, pieno di sogni, caparbio. Scomparve a 44 anni, quando era ancora in attesa di un riconoscimento solido e significativo nella temperie musicale che dal verismo passava ad altre espressioni del teatro d’opera.
La storia di Stanislao Giacomantonio mi sembra di averla sentita mille volte. Mi è capitato di leggere tesi accademiche sulla vita e l’opera. Ero presente alle selezioni del concorso lirico che gli hanno dedicato, alle più recenti rappresentazioni del suo atto unico che conosciamo col titolo La Leggenda del Ponte, o quando, nel ’78 eseguirono le sue due opere al Teatro Rendano con Ottavio Ziino a dirigere, sebbene fossi così giovane da non ricordare quasi nulla. Ricordo il pubblico, sì, assai numeroso, il libretto e il commento del Maestro Ziino: in fondo non si può dire che Stanislao Giacomantonio non abbia avuto attenzione e affetto dalla sua città, soprattutto dopo il lavoro costante del figlio Giuseppe.
Da Fior D’Alpe a La Leggenda del Ponte
La prima rappresentazione di Fior D’Alpe, un atto unico del 1905 dal racconto di Teresita Friedmann Coduri, e su libretto del noto avvocato Filippo Leonetti, fu un vero trionfo nel maggio del 1913, al Comunale di Cosenza. Ne parlarono con immenso entusiasmo non solo in città ma a Roma, a Milano, una fitta rete di giornalisti portò la notizia fin negli USA. A Cosenza il Fondo Giacomantonio della Biblioteca Nazionale conserva una messe di occasioni di ricerca e analisi davvero corposa, perché, a fronte di alcune opere pubblicate recentemente ci sono ancora molti fogli, soprattutto composizioni per canto e pianoforte, che attendono una revisione accurata e la pubblicazione.
Solo un esempio: nel primo faldone ritroviamo le varie stesure di Fior d’Alpe ma, già nel primo fascicolo, Giac. I/1 col n° 44350, ci sorprende una malinconica, dolente lirica per canto e pianoforte che rivela una forte capacità di adesione al testo -endecasillabi a rima alternata- databile a cavallo tra ottocento e novecento, e soluzioni armoniche semplici ma efficaci. Poi, oltre ai materiali che dispiegano la genesi della sua opera più nota, c’è una cospicua fonte di dati da cui accertiamo, tra l’altro, che con Fior d’Alpe il musicista aveva deciso di partecipare a un concorso (bandito dal Tirso di Roma), vincendolo nel 1910.
Spicco il volo sublime
Il motto, visibile sul frontespizio del manoscritto, celebra il sogno e la caparbietà di un giovane consapevole del proprio talento, in un modo che lascia trasparire il bisogno di superare i confini della provincia calabra: Spicco il volo sublime. Era una speranza, ma anche la consapevolezza implicita che uno come lui avrebbe dovuto spostarsi in ambienti culturalmente più ricchi e favorevoli alla promozione di giovani talenti.
Fior d’Alpe divenne poi La Leggenda del Ponte e l’acclamarono, forse non con gli stessi entusiasmi, anche dopo la Grande Guerra al Carcano di Milano, nel 1922, dove andò in scena il 5 dicembre assieme a Pagliacci di Leoncavallo.
Quelle Signore 70 anni nel cassetto
L’altra opera è un esempio della sua volontà di distinguersi: un romanzo scabroso, si disse all’epoca, divenuto un best seller di quegli anni, scritto da Umberto Notari che aveva trovato nel filone della “donna perduta” materia per una trama intrigante e drammatica. La “donna perduta” diventa il soggetto dell’opera in due atti Quelle Signore, espressione di una scrittura musicale ormai pregevole e di una matura sapienza scenica (così scrive il direttore d’orchestra Franco Barbalonga in una lettera indirizzata ai figli). Con il libretto dell’amico Leonetti, l’opera è conclusa nel 1908, ma non viene mai rappresentata fino al 1978.
La biografia del musicista, la più accreditata come punto di riferimento per gli studiosi, è quella dei due figli Aldo e Remo, un lavoro straordinario che però oggi può sembrare datato per almeno due motivi. Il primo è che scrivere la biografia di un genitore che sia stato anche una figura significativa dell’arte porta ad effetti talvolta celebrativi, sebbene la supervisione e la prefazione fossero stati affidati ad uno dei musicologi più prestigiosi e affidabili, Virgilio Celletti. L’altro perché il lavoro risale al 1990 con tecniche di ricerca che oggi potrebbero essere più avanzate e offrire dettagli più utili agli studiosi, specialmente per la ricostruzione e il ritrovamento di indizi utili, relativi ai numerosi materiali perduti durante gli eventi bellici.
Stanislao Giacomantonio e Sonzogno
Stanislao Giacomantonio è una figura che merita nuovi approfondimenti: le vicende della Guerra, il rapporto complicato e poi il contenzioso con la casa musicale Sonzogno (per la rappresentazione della Leggenda del Ponte a Milano), e soprattutto quella specie di operosa solitudine cosentina che lo vide per anni in città quasi frenetico animatore e didatta, ma pressoché fermo nella sua attività di compositore, meritano ancora scavi e approfondimenti. Non solo dalle carte del Fondo, ma anche dal catalogo riportato nella biografia dei figli non sembrano esservi lavori compiuti, importanti, dopo il 1908 se non qualche abbozzo, qualche idea.
Si tratta di ciò che è andato perduto o è come se il tempo cosentino e i dissapori con la casa musicale milanese avessero prosciugato la vena compositiva, la stessa motivazione a comporre? Una vicenda umana assai simile a quelle che molti studenti e giovani artisti vivono anche oggi nonostante le distanze accorciate dal web.
Viviana Andreotti