C’è un po’ di Calabria nelle grandi tragedie. Ad esempio, quella raccontata da Giorgio Bassani ne Il giardino dei Finzi Contini.
Iniziamo dalla protagonista.
Morta il primo marzo del 2009 a Milano a 90 anni, Matilde Bassani Finzi, cugina di Giorgio, ispirò Micol, il personaggio femminile del celebre romanzo.
Questo secondo una tesi accreditata e mai smentita dalla Bassani.
Secondo un’altra ipotesi, invece, l’ispiratrice di Micol sarebbe la contessa veneziana Teresa Foscolo Foscari.
In ogni caso, nessuna delle due assomiglia a Dominique Sanda che ha impersonato l’eroina nel celebre film di Vittorio De Sica, il quale nel 1971 vinse l’Oscar come migliore pellicola straniera.
La Micol del romanzo
Secondo la critica Micol è una delle figure più tragiche ed enigmatiche della letteratura italiana contemporanea.
L’amore di lei per lo studente universitario Giampaolo Malnate, amico di suo fratello Alberto, che muore giovanissimo, e l’affettuosa tenerezza per il compagno di infanzia Giorgio, figlio di un commerciante, sono il centro di una vicenda che termina tragicamente con la deportazione della famiglia Finzi Contini nei lager.

Bassani, De Luca e i Finzi Contini
Matilde Bassani, la “vera” Micol, è stata una figura romantica e importante della Resistenza, del socialismo e del movimento femminista.
Veniamo alla calabresità della vicenda. Da partigiana, Matilde Bassani – possibile ispiratrice de Il Giardino dei Finzi Contini – aderisce a Bandiera Rossa, gruppo combattente rivoluzionario fondato da Raffaele De Luca, avvocato calabrese vissuto a Paola per molti anni e personaggio di spicco dell’antifascismo romano. La vera storia non risulta meno affascinante di quella vissuta da Micol nel romanzo.

Le gesta di Matilde iniziano il 23 marzo 1943, mentre si reca in Vaticano per farvi accogliere due rifugiati polacchi. È subito fermata dalle SS, ma riesce a fuggire, sebbene le sparino a un ginocchio.
Suo padre, professore di tedesco all’Istituto tecnico di Ferrara, viene licenziato nei primi anni ’20, perché anche lui antifascista. Lo zio Ludovico Limentani, fratello della madre Lavinia, fu uno dei firmatari del Manifesto degli intellettuali contro il regime.
In azione a Firenze
Matilde nell’agosto ’44 va a Firenze con un gruppo di compagni di Roma, mentre ancora infuriano i combattimenti, per portare armi ai partigiani della brigata Bruno Buozzi.
Il gruppo giunge a destinazione grazie all’efficace lasciapassare della Central D Section del Psicological Werfare Branch.
A conferma dell’esoso prezzo pagato dai Bassani, occorre ricordare il sacrificio di suo cugino, Eugenio Curiel, combattente nella Resistenza, ucciso dai fascisti nel ’45. Nonostante le dure condizioni della vita in clandestinità, Matilde conosce l’amore della sua vita, Ulisse Finzi, che sposa il 4 aprile 1945.

Di ritorno a Roma
Insieme a lui e ai fratelli Andreoni, Matilde fa parte del Comando superiore partigiano a Roma.
Di lei scrive Concetto Marchesi, suo professore all’Università: «Il suo nome suonava allora come quello di una intrepida compagna che dava agli anziani l’esempio della fermezza, dell’intelligenza e dell’onore».
Dopo la liberazione di Roma, il Comando collabora con gli Alleati, fornisce assistenza ai partigiani in cerca di vitto e alloggio, vestiti, denaro, cure mediche, e lavoro.
Matilde porta notizie alle famiglie dei combattenti che ancora si trovavano nei territori occupati, e fa propaganda tramite volantini, manifesti e il giornale Il partigiano. Scrive anche articoli per Italia Combatte, un foglio che viene paracadutato dall’aviazione nei territori controllati dai tedeschi.

Il lungo dopoguerra di Matilde Bassani
Socialista, di stampo riformista emiliano, Matilde mal sopporta il verticismo dei dirigenti del Pci, con cui ha a che fare che nel secondo dopoguerra quando milita nell’Unione donne italiane e si ritrova accanto alle minoranze comuniste, agli anarchici e ai socialdemocratici.
Sempre nel dopoguerra, Matilde si impegna nelle lotte “femminili”: partecipa alla fondazione del Cemp (Centro per l’educazione matrimoniale e prematrimoniale) che ha tra i suoi obiettivi la diffusione della contraccezione, anche giovanile, e si attiva poi nei referendum per la difesa del divorzio e dell’aborto.
Raffaele De Luca, avvocato anarchico e massone
L’adesione a Bandiera rossa, rimane un fatto singolare da inquadrare nella sua educazione anarchica, libertaria e socialista, in sintonia col suo fondatore. Raffaele De Luca, al contrario di Matilde Bassani, nulla a che vedere con Il giardino dei Finzi Contini.

A lui qualche anno fa lo storico e scrittore Alfonso Perrotta ha dedicato il libro L’umano divenire. Nato a San Benedetto Ullano nel 1874, il padre era bracciante e la madre filatrice, De Luca si laurea in Giurisprudenza a Napoli.
Dapprima anarchico, in seguito si iscrive al Psi, candidandosi alle Politiche del 1921. De Luca è anche fondatore delle logge massoniche paolane “Germinal” e “Giuseppe Garibaldi”.
Alle prese coi fascisti
Organizzatore delle lotte dei contadini e dei ferrovieri, l’avvocato è aggredito in più occasioni dai fascisti.
È sorvegliato speciale di Polizia e dalla scheda del suo casellario si apprende che ha rapporti con Pietro Mancini.
Nel 1941 è costretto a trasferirsi a Roma. Lì fonda il gruppo comunista Scintilla e, nel 1943, il Movimento Comunista d’Italia. È direttore del giornale Bandiera Rossa.
Vivo per miracolo
Per la sua propaganda antifascista è arrestato in seguito a una delazione e finisce a Regina Coeli. Il Tribunale militare tedesco lo condanna a morte nel gennaio del 1944. Sollecitato a firmare la domanda di grazia oppone un netto rifiuto.
Evita comunque la fucilazione per l’intercessione di alcuni antifascisti che operano nel carcere. Esce di prigione all’indomani della liberazione di Roma.

Partigiani sconosciuti
In Bandiera Rossa di De Luca militano 1183 partigiani. Di questi, 186 muoibono in azioni di lotta (il numero è tre volte superiore a quello del Pci), e alcuni di loro sono “giustiziati” alle Fosse Ardeatine. Altri 137 finiscono nei campi di concentramento.
Il loro resta un tributo forte alla Resistenza, ma non così “ufficiale” da essere menzionato nella storia “organica” della Liberazione.
Alla fine della guerra molti di questi militanti chiedono la tessera del Pci. Al riguardo, si registra una singolarità: una domanda di iscrizione “collettiva”, cosa inusuale per il rigido statuto del partito.
A De Luca invece, resta un’amarezza: la sua domanda è accolta dalla Federazione romana del Pci, ma subito dopo è rigettata dalla Direzione nazionale e da Palmiro Togliatti in persona.
L’amarezza finale
Molto probabilmente, questo rifiuto si collega alla militanza massonica e al “frazionismo” dell’avvocato paolano: due cose incompatibili nell’organizzazione monolitica del Pci. Umiliato da questo diniego, Raffaele de Luca, molla la politica. Muore il 6 aprile 1949.
Alessandro Pagliaro