«Ero stato felice a Gerusalemme, con la mia povertà, come non mai, perché ero stato libero di osservare la vita in silenzio, senza essere distratto dalla molestia delle faccende quotidiane»
Gerusalemme, la Terra Promessa, città santa tre volte: per gli ebrei, i cristiani e i musulmani. Città contesa, ricca di contrasti, di contraddizioni, da sempre al centro di accese tensioni e sanguinosi scontri.
Questa città nel 1961 fu teatro del processo ad Adolf Eichmann.
Processo a Eichmann: La Cava inviato speciale
Il celeberrimo ufficiale nazista, pianificatore della soluzione finale, colpevole dello sterminio di milioni di ebrei durante la Seconda guerra mondiale, finì a processo proprio in un centro culturale gerosolimitano trasformato per l’occasione in tribunale; un evento che registrò un grandissimo coinvolgimento dei media mondiali.
Le udienze – che si svolsero dall’11 aprile al 15 dicembre ’61 e terminarono con la condanna a morte, non eccessivamente scontata alla vigilia– furono seguite da giornalisti provenienti da ogni continente.
Tra questi anche il grande scrittore calabrese Mario La Cava, inviato speciale del quotidiano lucano Corriere Meridionale.

Il viaggio in Israele
La cronaca di quell’esperienza in cui La Cava «intuisce che l’incontro con la banalità del male lo riguarda direttamente come individuo», in una terra molto più lontana e misteriosa – e quindi seducente – di quanto non possa comunque apparire ancora oggi, ritorna in Viaggio in Israele pubblicato, in ultima edizione, da Edicampus.
In questo prezioso volume – che gode delle attente curatela e introduzione di Milly Curcio e di un saggio di Luigi Tassoni – lo scrittore nato a Bovalino l’11 settembre 1908 tesse un filo che lega due mondi vicini e lontani, divergenti e convergenti.
Due realtà unite dal Mediterraneo che sciaborda sulle sponde ioniche della Calabria e su quelle israeliane.
Una civiltà arcaica in abiti moderni
Il processo Eichmann, infatti, per l’intellettuale assunse presto le fattezze del fortunoso pretesto per raccontare una civiltà arcaica e nuova al contempo, che lo sorprende per l’affinità col popolo della sua Calabria.
Una civiltà arcaica e nuova. Questa civiltà sorse soltanto nel 1948 con la costituzione dello Stato di Israele nella partizione a tavolino – osteggiata dagli antisionisti e dagli arabi – dell’antichissima Palestina, deliberata dall’assemblea generale delle Nazioni Unite.
Non solo: per La Cava il viaggio in Israele divenne l’indagine silenziosa – parola chiave della sua peregrinazione – di un universo fino ad allora appena fantasticato.

Un calabrese in Israele per il processo Eichmann
Lo scrittore, già noto e apprezzato in quell’epoca – l’autore de I Caratteri negli ultimi anni Cinquanta aveva dato alle stampe Le memorie del vecchio maresciallo e Mimì Cafiero –, affidò a un anonimo protagonista, suo alter-ego, il racconto di quella esperienza illuminante.
E, come per ogni viaggio di scoperta che si rispetti, gli inconvenienti – magari inconsciamente cercati – non tardarono. Sulla nave diretta ad Atene (scalo verso la Terra Promessa), il protagonista-autore si imbatté in un tale Toto C., pingue ebreo italiano, sedicente chirurgo esperto di procurati aborti, fuggito dal Bel Paese perché la donna che aveva sposato era oramai irrimediabilmente invecchiata e ingrassata. Non era più attratto da lei e perciò aveva pensato bene di rifarsi una vita nel novello Stato di Israele.
Il fascino della Terra Santa
La sosta nella capitale greca si protrasse più del dovuto per l’“oscuro scrittore” e il nuovo conosciuto, sicché, perduta la nave, ripartita dal Pireo senza di loro, si trovarono costretti a raggiungere Israele in aereo. A spese dell’ingenuo La Cava, che atterrò in Terra Santa avendo già speso gran parte del denaro portato con sé. Questo contrattempo segnò il suo intero soggiorno. E non per forza in negativo.
Lo scrittore si trovò beatamente spaesato in Israele, a contatto con una umanità povera ma non misera, ricevuto con l’ospitalità che tanto gli ricordò la sua regione in case di ebrei e di arabi. Si perse in pranzi pantagruelici, contemplò sinagoghe, biblioteche, kibbutz, porti, spiagge e coltivò stupore e malinconia per ogni cosa: il cielo ingombro di uccelli, le distese di eucalipti, il suggestivo “disordine silvestre” intorno alle città, il brulichio delle stradine, le barbe più belle sulla faccia della terra.
Narratore-viaggiatore, nello Stato ebraico Mario La Cava indagò con lo sguardo curioso le genti, le loro costumanze e il paesaggio tutt’attorno, nel sacro rispetto di ciò che si percepisce né inferiore, né superiore, ma unicamente diverso da sé. E neppure così tanto.

Tel Aviv, Petah Tikva, Gerusalemme – in cui ammise di avere trascorso i giorni «più ricchi di intime vibrazioni» della sua intera vita –, Rehovot, Nazareth, Haifa, Beer Sheva, capitale del deserto del Neghev; in questo lungo errare l’intellettuale bovalinese tornò sovente col pensiero alla Calabria, ricordatagli non solo dall’accoglienza e dai volti mediterranei, ma anche dal mare, dai colli e dai monti di quella terra che pareva lo volesse riavvicinare alla patria lontana.
L’incontro con Adolf Eichmann nel processo
Mario La Cava partecipò ad alcune delle udienze conclusive dell’epocale contraddittorio riservato a Eichmann, tra le pagine più affascinanti dell’opera originata da quei giorni d’estate del ’61.
«Mi pareva che soltanto con quell’incontro io sarei penetrato negli abissi del male e attendevo quella prova quasi come una rivelazione, nella quale meglio avessi potuto conoscere me stesso».
In prima fila, in una atmosfera da teatro, in attesa dell’atto finale della tragedia, La Cava cercò con lo sguardo gli occhi Adolf Eichmann, occhi che «nemmeno per un momento si prestarono ad essere guardati». Il volto affilato dell’ufficiale delle SS, le sue labbra sottili, taglienti, «le labbra di chi non aveva mai sorriso ad alcuno».
Lo scrittore strabiliò dinanzi alla impressionante sicurezza, al manifesto agio di Eichmann, autentica reincarnazione del Diavolo, in quella situazione drammatica. E scrisse: «Sembrava che non avesse fatto altro che prepararsi nella sua vita a quel tipo di dibattimento».
Il gelido nazista
Di fronte alla speciale corte gerosolomitana che gli contestava crimini di guerra, crimini contro l’umanità, nello specifico contro gli ebrei, Eichmann asserì di avere eseguito ordini superiori, fedelissimo a un principio, un ideale, un capo che non esistevano più.
Agli occhi di La Cava, il criminale nazista apparì interessato esclusivamente a difendere da una parte «il buon nome del popolo tedesco di fronte alla storia» e dall’altra la sua verità suprema, che serbò dentro sé e che non permise a nessuno di scardinare e scoprire, lasciando così non pienamente soddisfatto il popolo di Israele, in cui comunque il narratore non riscontrò alcun furore particolare. Comprese che soltanto il silenzio dei sopravvissuti alle persecuzioni poteva essere «la risposta più confacente» alla sciagura cui la comunità ebraica era andata incontro.
Una domanda senza risposta
«Che uomo fu dunque Eichmann?» si domandò Mario La Cava. L’interrogativo rimase irrisolto; la condanna a morte dell’ufficiale, eseguita a Ramla, meno di cinquanta chilometri a nordovest di Gerusalemme, il 31 maggio 1962, mise la parola fine alla parabola di Eichmann fondendo nello stesso tempo l’unica chiave con la quale sarebbe stato possibile aprire il suo forziere di segreti.
Cos’è Viaggio in Israele?, si domanda invece oggi il lettore. Un saggio? Un romanzo storico? Un reportage?
Pubblicato per la prima volta nel 1967 da Fazzi, editore di Lucca, e ristampato nel 1985 dall’editore cosentino Brenner – con la speranza di fare ottenere migliore fortuna a quello che lo stesso autore aveva definito uno «strepitoso insuccesso» –, il libro del tentato vis-à-vis di La Cava e Eichmann e dell’avventura israeliana dello scrittore, non è facilmente confinabile dentro un recinto.

Una testimonianza importante
Anche questo interrogativo resta insoluto. Se proprio volessimo arrischiare una definizione, accollandoci tutte le responsabilità del caso, potremmo identificarlo come un diario letterario, che attinge tanto dall’autobiografia quanto dal romanzo.
Nell’opera, Mario La Cava ci ha fatto dono di una testimonianza originale per comprendere l’inquietudine precedente alla cosiddetta Guerra dei sei giorni – breve ma decisivo conflitto del giugno 1967 che portò Israele a conquistare buona parte dei territori contesi – e che vige tuttora in quell’angolo del pianeta.
Le contraddizioni di un popolo tollerante e rigido insieme, le prime tensioni sociali, economiche e politiche, la complessità dei rapporti tra ebrei e arabi, paragonati, sotto il punto di vista sentimentale, ancora una volta ai calabresi, costretti a vivere da subordinati per il bene nazionale; aspetti che fanno del diario letterario – ci siamo convinti, sì – di La Cava uno scritto dalla «forte connotazione etica», come afferma Tassoni, da leggere, fedeli alle indicazioni dell’autore, in silenzio, con l’animo lene, spoglio dei pregiudizi e dell’arroganza propri di chi, postero ai fatti che è intento a leggere, crede di avere in mano la verità.