Puma d’oro e d’amuri: così il pomodoro si è preso la Calabria

Dopo l'arrivo dall'America ha conquistato in breve tempo i contadini, nonostante i botanici lo sconsigliassero. Da allora è colonna portante della agricoltura e della cucina locale, ma come si preparava nei secoli passati? Ecco alcune ricette

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Al pomodoro, chiamato anche mela insana e mela aurea, erano attribuite proprietà afrodisiache e, secondo alcuni, era impiegato in filtri magici per favorire relazioni amorose. In diverse zone del Sud era consuetudine chiamarlo puma d’amuri o puma d’oro, probabilmente ricollegandolo al mitico pomo d’oro destinato alla più bella tra Venere, Giunone e Atena.

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Giudizio di Paride, dipinto da Pieter Paul Rubens intorno al 1638

In passato, però, i pomodori avevano una cattiva reputazione per le proprietà organolettiche. Nel Seicento, studiosi come Benzo, Durante e Mattioli scrivevano che davano scarso nutrimento. E che, una volta maturi, si potevano consumare solo se conditi con pepe, sale e olio, perché «dolciastri e disaggradevoli».
Soderini, in un noto trattato del 1851 su orti e giardini, nonostante i pomodori ormai si coltivassero ovunque, sosteneva che non fossero buoni da mangiare «ma solo si poteva cercarne d’avere per bellezza».

Il pomodoro si fa largo

Ma ignorando le raccomandazioni dei botanici, spinti dalla fame e dal bisogno, superando qualsiasi diffidenza o paura, i contadini piantavano i pomodori. E alcuni cuochi cominciarono a utilizzarli nei loro piatti. Per conferire un bel rosso alla «zuppa alla mosaica», i cuochi consigliavano di usare salsa di pomodoro setacciata e in inverno pomodori secchi tritati o «quelli in bottiglia». Alcuni suggerivano un «timpano» formato da strati di pomodori crudi e vermicelli freschi con sale, pepe e olio, strutto o butirro.piante-pomodoro-semina

Nel Settecento si faceva la conserva di pomodori «solida» e «liquida». Quella solida si otteneva bollendo i frutti maturi in una caldaia con chiodi di garofano, pepe, cannella e sale. Una volta tolti semi e bucce, si facevano ribollire sino a ridurli a una pasta densa con la quale si formavano dei «bastoncelli».
Quella liquida si preparava lessando i pomodori, riducendoli a marmellata e mettendoli in barattoli di terra verniciati e ricoperti d’olio.

Reggio esporta, Catanzaro fa polpette

In Calabria il pomodoro si seminava in diversi territori tanto da essere citato in una statistica del 1805 come l’unica pianta «americana» messa a coltura nella regione.
Negli anni seguenti i contadini cominciarono a coltivare i pummadori in maniera intensiva. I più comuni erano quelli a «frutto piccolo rotondo», utilizzati per la salsa, e quelli «a pruno» che si appendevano e duravano sino a primavera. Si usava anche spaccarli a metà, coprirli di sale, seccarli al sole e infilzarli formando delle corde. Oppure tagliarli, salarli, metterli in un vaso per quattro giorni, passarli al setaccio, aggiungere chiodi di garofani, lasciarli al sole e, una volta asciutti, metterli in vasi vetrati.

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Pomodori in essiccazione sotto il sole

Verso la metà dell’Ottocento, negli orti di Reggio Calabria la coltura predominante era quella dei pomodori, sia perché si prestavano bene alla rotazione dei terreni, sia perché si vendevano in gran quantità nella vicina Sicilia.
In un noto manuale di cucina del 1819 il pomodoro era utilizzato nelle «polpette alla catanzarese», simili agli odierni involtini di carne. Si consigliava di scegliere un pezzo di manzo e levare accuratamente «pelli» e nervi. Quindi, tagliarlo a fette sottili e stendervi un impasto di lardo tritato, provatura «marzolina» a dadi, pepe, noce moscata, zibibbo senza «pipini» e prezzemolo. Le fettine si arrotolavano, si legavano con un filo e si cuocevano in una «cazzarola» con lardo, prosciutto, cipolla, erbette e un pezzo di butirro. Una volta colorite, alle «polpette» si aggiungeva un po’ di farina, mezzo bicchiere di vino bollente e si copriva il tutto con brodo di carne o sugo di pomodoro. A fine cottura, occorreva scolare, togliere il filo e sistemare gli involtini nel piatto coperto con salsa ben «disgrassata» e passata al setaccio.

Il pomodoro nel… passato

I pomodori nelle case contadine erano adoperati in minestre, zuppe o insalate, mentre sulle mense dei ricchi erano serviti ripieni di carne o pesce. Dopo aver tolto la pelle e i semi calandoli nell’acqua bollente, si farcivano con carne «passata e pesta» e si cuocevano in un colì di vitello. Erano serviti anche ripieni di salpicón di animelle, erbette e spezie e, una volta infarinati e dorati, rosolati al forno con parmigiano e butirro. Altri cuochi imbottivano i pomodori con un impasto di burro, gialli d’uova, «provatura» grattata, cipolla, acetosa, targone, menta, prezzemolo, sale e pepe, li friggevano e li coprivano con un colì di prosciutto condito con erbe. Altri ancora li riempivano con rognonata di vitello arrostita e tritata, gialli d’uova, formaggio e spezie. Dopo averli infarinati, passati nel pane e parmigiano grattato, friggevano l’intingolo nello strutto e lo servivano con crostini.

In alcune zone si usava spezzettare la polpa del pomodoro, aggiungere spezie, noce moscata, butirro, ricotta e gialli d’uova, formare crocchette della lunghezza di un dito, infarinarle e friggerle. Certi cuochi mischiavano la polpa del pomodoro con butirro, spezie, parmigiano, pane grattato, polvere di cannella, gialli d’uova, panna di latte, zucchero di canna, corteccia di portogallo e, una volta ridotta a crema si faceva assodare al forno in una casseruola unta di butirro e spolverata con pan grattato. Altri farcivano i pomodori con un colì di gamberi, acciughe ed erbette, condendoli con olio e salsa di tartufi, oppure riempiti con un trito di acciughe, prezzemolo, origano e aglio, insaporiti con sale e pepe, coperti con pan grattato e cotti al forno.

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