Attenti alle fave: il demone che spaventò il crotonese più illustre

Pitagora e i suoi allievi le ritenevano impure e pericolose. Il pensatore della città jonica ne proibiva il consumo. E non era il solo a temerle

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La primavera è tempo di fave ma per Pitagora erano un alimento impuro e immondo. Il filosofo di Crotone era un convinto vegetariano ma vietava l’uso delle fave. Porfirio racconta che «prescriveva di astenersi dalla fave non meno che da carne umana» mentre nei detti simbolici affermava perentoriamente: «astieniti dalle fave».

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Busto che raffigura il filosofo Pitagora

I filosofi non mangiano fave

Per Aristotele, Pitagora ebbe a dire che «mangiar fave, è lo stesso che mangiare il capo del genitore» e per Luciano «io non mangio alcuno animale; tutte le altre cose poi, infuor le fave». In un’altra occasione affermò sulle fave: «Io non le odio, ma per sempre me ne astengo, perché son sacre, perché hanno una natura mirabile». Tertulliano ci informa che Pitagora addirittura «aveva prescritto ai suoi discepoli che non si doveva neppure passare attraverso i campi di fave» e, secondo Porfirio, voleva che tale prescrizione fosse rispettata anche dagli animali.

I pitagorici uccisi per colpe delle fave

Secondo Dicearco, Pitagora morì nel tempio delle Muse di Metaponto dove si era rifugiato in seguito alla rivolta contro la sua scuola. Eraclide sostiene che, dopo avere seppellito Ferecide a Delo, si ritirò in quella città dove pose fine alla sua vita lasciandosi morire di inedia giacché non desiderava vivere più a lungo. Molti racconti mitici legano però la fine di Pitagora e dei suoi discepoli alle fave.

Ippoboto e Neante, scrive Giamblico, narrano che il tiranno Dionisio, poiché non riusciva a farsi amico nessun pitagorico, dal momento che rifuggivano dal suo carattere dispotico e violento, inviò una schiera di trenta uomini, sotto il comando del siracusano Eurimene, per tendere loro un agguato. I soldati si appostarono in un luogo nascosto nella zona di Fane, una località vicino Taranto piena di voragini, dove i pitagorici sarebbero dovuti necessariamente passare e a mezzogiorno li assalirono levando alte grida, alla maniera dei briganti.

I discepoli di Pitagora decisero di fuggire e si sarebbero salvati, perché gli uomini di Eurimene, ostacolati dal peso delle armi, erano rimasti indietro nell’inseguimento, ma s’imbatterono in un campo seminato a fave già in pieno rigoglio. Così, non volendo contravvenire al precetto che imponeva di non toccare le fave, si fermarono si difesero con pietre e bastoni ma furono sopraffatti.

Il mistero delle fave non può essere rivelato

Continua il racconto di Giamblico sulla sorte di Millia e Timica, due pitagorici sfuggiti al massacro: «Ma subito in costoro si imbatterono Millia di Crotone e Timica di Sparta, che erano rimasti indietro rispetto al gruppo perché Timica era all’ultimo mese di gravidanza e perciò procedeva lentamente. Essi li fecero prigionieri e soddisfatti li condussero dal tiranno, dopo averli trattati con ogni cura, affinché rimanessero in vita. Dioniso, una volta informato dell’accaduto, si mostrò assai abbattuto e disse loro: «Da parte mia voi riceverete, a nome di tutti gli altri, gli onori che meritate, nel caso vogliate regnare assieme a me».

Poi, visto che Millia e Timica respingevano ogni sua proposta aggiunse: «Se mi spiegherete una sola cosa, sarete lasciati andare sani e salvi con una scorta adeguata». E a Millia che gli domandava che cosa volesse sapere, rispose: «Per quale ragione i tuoi compagni hanno preferito di morire pur di non calpestare le fave?». Al che Millia: «Quelli si sono assoggettati alla morte pur di non calpestare le fave; io, per parte mia, preferisco calpestare le fave pur di non rivelartene la ragione».

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Il tiranno Dionisio

Allora Dioniso, colpito dalla risposta, diede ordine di portar via con la forza Millia e di sottoporre Timica a tortura, convinto che, in quanto donna, in attesa di un figlio, e per di più priva del marito, avrebbe facilmente parlato per timore della tortura. Ma l’eroina si morsicò la lingua, staccandosela, e la sputò in faccia al tiranno, mostrando con ciò che anche se la sua natura di donna, sopraffatta dalla tortura, fosse stata costretta a rivelare a qualcuno segreti su cui era obbligatorio tacere, lei aveva tagliato via lo strumento a ciò necessario».

Piante demoniache

Sul tabù di Pitagora si sono avanzate varie spiegazioni. Le fave erano piante demoniache, antenate degli uomini, cibo dei morti, intorpidivano il corpo, provocavano il favismo, erano indigeste e via dicendo. Un tabù è difficile da comprendere. Come il mito, per sua natura è bizzarro e illogico, tende all’occultamento e alla mistificazione del reale, non risponde a delle domande e non da spiegazioni. Il tabù è ambiguo, spesso il suo senso non risiede in ciò che racconta, ma in qualcosa che non racconta; rende manifesti certi meccanismi fondamentali della mente umana, ma non per questo li significa. Il suo compito non è quello di chiarire, ma deformare, ingannare e infittire le oscurità intorno a sé; non è quello di persuadere ma di affascinare, non di spiegare ma di fondare, non di porre domande ma dare risposte.

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Le fave probabilmente erano un tabù pitagorico

Fave e tabù

Gli stessi pitagorici probabilmente non cercavano di svelare il segreto delle fave, non chiedevano di sapere le sue origini, non esprimevano giudizi su di esso. Alcuni sostengono che tabù come quello delle fave rimarranno sempre insoluti e indecifrabili. Baudrillard scrive che ogni interpretazione è qualcosa che si oppone alla seduzione e ogni discorso interpretativo è il meno seducente che ci sia. Ogni interpretazione impoverisce e soffoca il tabù, poiché esso ha una tale ricchezza di significati che non possono essere rivelati dalla logica di un ragionamento. Il tabù delle fave è enigmatico e sconcertante, è il mondo del mistero, della magia e della seduzione. I suoi segreti sono una sfida all’ordine della verità e del sapere e gli uomini non capiscono il senso della sua immagine, ma si immedesimano in essa.

I pitagorici preferiscono la malva

Le proibizioni e le prescrizioni pitagoriche hanno un senso solo se viste all’interno di una logica che tendeva a organizzare il mondo in una scala di valori. Ai suoi discepoli Pitagora diceva che bisognava onorare gli dei prima dei daimon, i daimon prima degli eroi, gli eroi prima dei genitori, i genitori prima dei parenti. In questa scala c’erano poi delle cose pure e impure, buone e non buone, belle e brutte. Il filosofo sosteneva che la fava era demoniaca e la malva santissima, ma tale affermazione non aveva nessun senso se pensiamo che la maggior parte della popolazione si nutriva di fave e che invece la malva era utilizzata di tanto in tanto come infuso.

La malva era santissima e le fave erano demoniache perché bisognava comunque scegliere all’interno del mondo vegetale le cose buone e le cose cattive. In tale prospettiva di prescrizioni e restrizioni è quindi del tutto inutile trovare delle ragioni ai tabù, poiché il loro senso era puramente formale, senza contenuto, privo di significato.
La divisione tra le cose permesse e proibite non aveva un significato legato alle loro proprietà intrinseche ma al fatto che si dovevano introdurre delle distinzioni per dare un ordine. Secondo Aristotele, il dualismo fondamentale che per i pitagorici rifletteva l’opposizione tra bene e male, era quello tra limitato e illimitato: il male era proprio dell’illimitato e il bene del limitato.

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L’antropologo Claude Lévi-Strauss

Sostiene Lévi-Strauss

Il modo di ragionare di chi stabiliva i tabù rientrava in una struttura mentale di pensiero che cercava di decifrare e ordinare in un sistema di coppie concettuali in cui il primo membro era contrassegnato positivamente e il secondo negativamente. Lévi-Strauss scrive che l’attività mentale dell’uomo tende a organizzarsi attorno ad una struttura binaria e che il passaggio dallo stato di natura a quello di cultura si definisce con l’attitudine a pensare le relazioni sotto forma di sistemi di opposizioni. Dualità, alternanza, doppio e simmetria non costituiscono dunque i fenomeni da spiegare, ma dati della realtà mentale e sociale nei quali riconoscere i punti di partenza di ogni possibile spiegazione.

Divieti, puro e impuro

Le regole pitagoriche, dunque, tendevano all’armonia e all’equilibrio, a tradurre il caos in cosmo e cioè in un sistema razionalmente ordinato e armonico. I divieti erano senza contenuto e senza significato: la proibizione serviva solo a costruire un sistema logico che strutturasse il mondo. I tabù facevano parte di una struttura mentale che contrapponeva sacro e profano, puro e impuro, lecito e illecito per porli in relazione. Questa struttura mentale inconscia e universalmente astorica non solo dava ordine al disordine ma era fondamentale per favorire lo scambio tra gli esseri umani: la reciprocità tra gli uomini è stabilita sempre sulla base di proibizioni e le stesse proibizioni hanno segnato il passaggio dalla natura alla cultura.

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