Pietro Maiellaro: Messico, nuvole e lampi di genio

Fenomeno a squadre e domeniche alterne, lo Zar regalava giocate da cineteca sui campi italiani e quelli d'oltreoceano. Come quel goal a Toldo al San Vito di Cosenza

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Molto prima che ci facessero sognare i vari Giggs, Gerrard e Lampard, Rui Costa, Leonardo, Ronaldinho o in parte Redondo (molto più tecnico, ma col baricentro molto più giù), il centrocampista che va sistematicamente in goal è una invenzione italiana. Tipica di squadre chiuse, dove il fantasista scardina e il 9 puro fa più la boa che il bomberone. Mario Corso Mario, come dice Ligabue. Mazzola che avanza due palloni d’oro, uno di Cruijff e uno dell’altro dieci con la rete e la sigaretta facile, Gianni Rivera.

Nella Cosenza Ottanta/Novanta, e nel suo Cosenza, qualche giocatore tecnico che piace alla curva e ogni tanto sciorina in saccoccia delle perle gemmate si vede. Urban, ad esempio, tanta classe ma anche tanti sacrifici sui campi off della pedata minore. Molto più tardi Tatti, che però gioca seconda punta. Nel ‘93/’94, l’anno del primo mondiale tototruffa e tutto marketing, a Cosenza abbiamo Pietro Maiellaro.

Pietro Maiellaro, lo Zar di Bari

Irsuto d’approccio, abulico quando di luna storta, ma dispensatore di gioia quando lo squarcio si accende e rivela. Si era fatto le ossa a Bari, divenendo una sorta di Lider Maximo, idolo di quartiere, tipo da murales, da maglia autografata, da tanti calci e ancora più calcio. Lì, il primo frame dei suoi flash da Messi ante litteram. Lui coi galletti pugliesi, tutti gli altri un Bologna piccolo piccolo.

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Pietro Maiellaro affronta Diego Armando Maradona in una sfida tra Bari e Napoli

Era del resto un Bologna un po’ straccione e un po’ decaduto insieme, molto diverso dalla squadra di fine anni Novanta che, grazie ai goal di Beppe Signori alla seconda giovinezza da fantasista, farà nella stessa stagione semifinale in Coppa Italia e UEFA.
La palla è una saponaccia poco oltre i quaranta metri: rimbalzata, strappata, sporca, lercia e anonima. Maiellaro ci vede dietro la sceneggiatura del goal della domenica, la giocata da loop in cineteca. Buona acrobazia per acciuffarla piena e scarica robusta: una sassata balistica che uccella l’estremo difensore felsineo andato a caccia di farfalle.

Dopo quelle quattro stagioni da urlo, si fanno avanti in tante. Una volta è la Fiorentina: la Fiorentina che, come in modo suicida faceva il Cecchi Gori di inizio Duemila, comprava attaccanti su attaccanti. E segnava e prendeva. Maiellaro, in realtà, c’è: ma gioca poco, la continuità non esiste. E Maiellaro a Bari ha insegnato che per prendersi la scena deve avere la piazza, la stagione, la tenacia del tempo contro l’euforia dell’attimo. Altrimenti, quei suoi istanti di cristallo non hanno giusto ambiente di maturazione.

La seconda chance

La seconda chance si chiama Ternana: neopromossa in B che fa una campagna acquisti grandi firme e zero contratti. Sulla carta Pino “Saracinesca” Taglialatela, pararigori nel Napoli che rimpiangeva Maradona e troppo presto aveva dimenticato Giuliani, e Sandro “Cobra” Tovalieri: velenoso bomber bassino che poteva fare anche il tornante. Tanto i suoi golletti stagionali li refertava. Si dissolse presto e le curve di Terni subirono l’ennesimo declassamento sul campo. Alcuni amici e maestri conosciuti tra i Freak Brothers della Est ricordano ancora quella estate di illusioni di oltre trent’anni fa: come un bacio non dato, che non si dimentica per il male che ti ha fatto.

Ho visto Maiellaro

E così Pietro Maiellaro a Cosenza. Annata realizzativa buona. Il Cosenza della B ogni anno, e ogni anno l’aritmia in pieno petto di non sapere se lotterai per la A o dovrai romperti la schiena ad evitar la C (un coro ancora cantato in Bergamini nasce da questa schizofrenia).

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La Curva Sud del San Vito negli anni ’90

Cosenza-Fiorentina. Presente stretto, passato prossimo a metà. Maiellaro prende una palla ancora una volta anonima, di risulta, una fesseria sotto il Sole che squarcia in diagonale il rettangolo al San Vito quasi fossero i Campi Elisi di Marassi. Se li beve tutti, indistintamente tutti. Cinque, sei gli vanno dietro. Lui semina e cammina. L’attempato cronista della Rai dirà che Maiellaro si ferma solo quando la palla va in rete: è vero. San Vito in delirio permanente, io lì ragazzetto con lo zio Tonino, fratello di mia nonna, tutta sera ancora a parlare, a una cena di famiglia con nonni e bisnonni, del goal di Maiellaro, del contratto al Milan di Baresi, di quel calcio grande che si sentiva anche in piccola città (non) bastardo posto.

Maiellaro si perderà un po’ negli anni a seguire. Nel ’96 in Messico, quando gli italiani all’estero erano roba occasionale da folklore. Mica oggi, che il Messico ha visto gli ultimi ruggiti della Tigre André Gignac, che avrei voluto a Roma. E infine un solidissimo fine carriera con microparentesi da giocatore-allenatore in campo in quel di Campobasso. Dicono che ci manchi quel calcio perché abbiamo perduto l’innocenza. E invece no: ci manca ché abbiam perduto la bellezza.

Domenico Bilotti

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