Persefoni a Bova, il rito continua a dirci chi siamo

Vent'anni fa nel cuore della Calabria grecanica, interrogando il rapporto tra passato e presente e la forza dell'identità

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Vent’anni fa, nei primi anni 2000, ho percorso i sentieri tortuosi dell’Aspromonte con una videocamera in spalla, in compagnia di Ottavio Cavalcanti e Rosario Chimirri. Eravamo lì per un documentario di osservazione, un progetto di ricerca che ci aveva portati a Bova, un paese della Calabria grecanica aggrappato alla roccia, per immergerci in un rito antico e misterioso: la processione delle “Persefoni” della Domenica delle Palme. Non cercavamo solo immagini, ma il significato profondo di una tradizione che intreccia mito, natura e cultura, in un luogo dove il tempo sembra scorrere più lento.

Persefoni, Bova ci accolse col suo silenzio solenne

Bova ci accolse con il suo silenzio solenne, rotto solo dal fruscio del vento e dal suono lontano delle campane. Le stradine lastricate, le case di pietra e l’odore di ulivo ci avvolsero mentre preparavamo le nostre attrezzature. La Domenica delle Palme era vicina, e il paese si animava di un’energia collettiva: uomini, donne, bambini, tutti al lavoro per costruire le “Persefoni”, figure antropomorfe fatte di canne selvatiche, foglie di ulivo, fiori di campo e frutti di stagione. Ricordo le mani abili di un’anziana che intrecciava le stiddh, raccontandoci come sua madre le avesse insegnato quel gesto quando era bambina. Ottavio Cavalcanti, con il suo sguardo da antropologo, annotava ogni dettaglio, mentre Rosario, osservava abitazioni, slarghi e stradine, mentre catturava il suono delle risate e dei canti che accompagnavano il lavoro.

Simboli potenti e carichi di storia

Ci si soffermava a parlare con i più giovani, curiosi di capire se sentivano ancora loro quel rito. Le “Persefoni” non erano semplici decorazioni. Erano simboli potenti, carichi di storia. Durante le riprese, abbiamo cercato di coglierne ogni sfumatura: le “madri”, più grandi e imponenti, e le “figlie”, delicate e ornate di nastri colorati, sembravano raccontare il ciclo della vita, la fertilità della terra, il passaggio delle stagioni. I bergamotti, le fave, i mandarini e le piccole forme di formaggio chiamate musulupe che le adornavano erano un’esplosione di colori e profumi. Mentre filmavamo la processione, dalla Chiesa dello Spirito Santo al sagrato di San Leo, sentivo che stavamo assistendo a qualcosa di più grande: un dialogo tra passato e presente, tra cristianesimo e culti precristiani, tra l’uomo e la natura.

Bova, nel cuore della Calabria grecanica

Una Calabria che già portava i segni dello spopolamento

Le ipotesi di studiosi che collegavano le “Pupazze” al mito di Persefone e Demetra, prendevano vita davanti ai nostri occhi. Non tutto era idilliaco. La Calabria che stavamo documentando portava i segni dello spopolamento e dell’abbandono. A Bova, molti giovani erano già partiti in cerca di un futuro altrove, e gli anziani parlavano di un tempo in cui il paese era più vivo. Una donna, mentre smembrava una “Persefone” per distribuire le steddhe benedette, ci raccontò di come quelle foglie di ulivo fossero un talismano: le avrebbe messe sugli alberi del suo podere, sperando in un buon raccolto. In quel gesto c’era una fede profonda, non solo religiosa, ma legata alla terra e alla sopravvivenza. La mia macchina da presa si soffermava su questi momenti, cercando di catturare non solo la bellezza, ma anche la fragilità di una comunità che si aggrappava alle sue radici.

Persefoni, la magia di Bova

Girare quel documentario era un lavoro lento, quasi rituale. La luce non sempre collaborava, e le vecchie videocamere a volte ci tradivano. Eppure, c’era una magia in quel processo. La sera, riuniti in una piccola stanza del paese, rivedevamo il girato, discutendo di come montare le immagini per rispettare la complessità di ciò che stavamo vedendo. Oggi, ripensando a quei giorni, capisco quanto quel viaggio a Bova abbia segnato il mio modo di guardare il mondo. Le “Persefoni” non erano solo un soggetto da filmare, ma una porta verso un universo di significati: la Dea Madre, la rinascita primaverile, la forza di una comunità che, nonostante le difficoltà, continuava a celebrare la vita.

Il rischio di trasformare tutto in folklore

La Calabria grecanica di allora è cambiata – il turismo è cresciuto, i laboratori per insegnare l’arte delle “Pupazze” sono un segno di speranza – ma il rischio di trasformarle in folklore per visitatori è sempre presente. Eppure, so che a Bova, ogni Domenica delle Palme, quel rito continua a parlare di chi siamo stati e di chi potremmo essere. Il nostro documentario, forse mai completato come avremmo voluto, è un frammento di quella storia. Ma le immagini di quelle figure danzanti tra le vie del paese, sotto un cielo di primavera, restano vive nella mia memoria, come un invito a non dimenticare.

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