Avevano promesso loro un pezzo di terra nel cuore della Sila, dov’erano nati e cresciuti. E quella terra la ottennero. Solo che a migliaia di chilometri di distanza. Dall’altro capo dell’oceano. In mezzo al nulla.
È una storia di menzogne e sfruttamento, sacrifici e sogni infranti, quella delle famiglie che l’Opera per la valorizzazione della Sila (Ovs), all’inizio degli anni ’50, inviò da San Giovanni in Fiore in Brasile per fondare una città, Pedrinhas. E ha i tipici ingredienti delle storie di fallimenti targati Italia: interessi politici, poveracci fregati, annunci distanti anni luce dalla realtà.
La riforma agraria, l’Opera Sila e Pedrinhas
Il Ventennio fascista si è concluso da poco, lasciando in eredità macerie e povertà. Nonché un ente, l’Icle (l’Istituto nazionale di credito per il lavoro italiano all’estero) che ha creato Mussolini e fino a quel momento ha gestito con scarsi risultati e parecchi denari i flussi migratori dalla Penisola al resto del mondo. Nella neonata Repubblica parte la riforma agraria, una battaglia contro il latifondo per una più equa distribuzione delle terre ai contadini. Ma in Calabria, più che altrove, le cose vanno a rilento.
La legge Sila, che prevede gli espropri ai ricchi possidenti locali, è del ’51. A San Giovanni in Fiore l’Ovs, nata quattro anni prima, prende possesso di quasi 3.300 ettari di terreno. Diciotto anni dopo quelli ridistribuiti saranno ancora poco più della metà, circa 1.800. E il malumore nella “capitale della Sila”, dove il rosso è il colore politico più in voga, inizia presto a farsi largo.
La soluzione arriva da un accordo che il nostro governo e quello carioca hanno siglato nel ’47: l’Italia invierà manodopera in Brasile, in cambio di forniture varie. Sembra il modo di prendere due piccioni con una fava: i contadini avranno la terra che spetta loro, seppur in un altro continente, e, con la scusa di aiutarli, ci si libererà pure di qualche rompiscatole di troppo spedendolo all’altro capo del mondo. L’Opera Sila, a forte trazione democristiana, non si lascia sfuggire l’occasione e lancia l’operazione Pedrinhas.
Dal manifesto a… l’Unità
E così sui muri dei paesi silani, nel dicembre del ’51, appare un manifesto che inizia così: «La terrà è poca e non basta a soddisfare le esigenze di vita e di lavoro di tante famiglie di contadini della Sila. Per superare queste difficoltà, l’Opera per la valorizzazione della Sila ha concordato con la I.C.L.E., in uno spirito di cordiale collaborazione, un programma di emigrazione organizzata che inizia la sua attuazione il 2 dicembre. In tal giorno alcune famiglie partiranno da San Giovanni in Fiore dirette verso il Brasile, generoso ed ospitale, ove riceveranno una terra ed una casa. L’atto di solidarietà nazionale, che ispira la riforma, trova così un’eco nel gesto di solidarietà del Paese amico che accoglie i nostri lavoratori».
Quel 2 dicembre non è una data casuale: è il giorno in cui arriva in Sila l’onorevole Luigi Gui, sottosegretario all’Agricoltura, insieme al presidente dell’Ovs Vincenzo Caglioti per una cerimonia in cui è la propaganda a farla da padrona. Sono 52 le famiglie, spiegano i due, che partiranno dalle montagne calabresi verso il Brasile. «Riformatori o negrieri?», titolerà L’Unità a distanza di qualche giorno.
Pedrinhas e l’Opera Sila in Parlamento
Giacomo Mancini ricorderà quella giornata pochi mesi dopo alla Camera, definendo l’operazione Pedrinhas «un’indegna farsa» per celare «l’attività negriera» dell’Opera Sila. In effetti, la terra da distribuire in Sila all’epoca era più che sufficiente per non costringere ad emigrare proprio nessuno. Dello stesso avviso il comunista di Acri Francesco Spezzano, che dal suo scranno in Senato tuona contro l’Ovs: «Da Opera di applicazione della riforma fondiaria, da Ente esecutivo della riforma fondiaria, si è trasformato in ente di organizzazione dell’espatrio in massa dei contadini. Potrei dire anzi, che, per diminuire la pressione dei contadini, da ente di riforma si è trasformato in ente di vendita di carne italiana».
Brasil…a: dal latifondo al deserto rosso
A 550 km dalla capitale São Paulo, a 50 dalla città più vicina, in una sconfinata distesa di terra rossissima, fertile ma in gran parte ancora da bonificare, arrivano i primi italiani. Sono 143 famiglie provenienti da 16 regioni diverse, nove arrivano dalla provincia di Cosenza. Ma la parte del leone della nascente colonia l’avranno i veneti, in particolare quelli che arrivano da San Dona’ di Piave.
Guida, spirituale e non solo, di Pedrinhas sarà infatti Ernesto Montagner, prelato partito insieme ai sui parrocchiani verso quel remoto angolo di Brasile. E “l’atto di nascita” della cittadina italo-brasiliana è proprio la posa della prima pietra della chiesa di San Donato nel bel mezzo del minuscolo paese a settembre del ’52, anche se il primo nucleo di operai italiani è lì già da dodici mesi. I sangiovannesi arrivano il 23 dicembre dello stesso anno.
Le speranze di un futuro migliore lasciano presto il posto alla durissima realtà. Il clima torrido è un inferno per i silani e la vita brasiliana è ancora peggio di quella tra i monti calabresi.
A raccontare la delusione è Virgilio Lilli, inviato sul posto dal Corriere della Sera nel ’54. «Quando le famiglie trasportate sulle belle navi giunsero a Pedrignas (confini Stato Paranà-Stato San Paolo), trovatesi di fronte alla terra rossa incolta, alle case ancora deserte, al silenzio della terra tropicale (malgrado l’altezza), scoppiarono in pianto. Anche le donne di quelli che resistettero piansero sei mesi di fila, tutte le notti; poiché avevano intravisto il lusso, il conforto, la felicità, in mare, ed ora si scontrarono con la dura vita degli inizi. Quanto ai deboli, arrivarono gridando che volevano tornare a casa e ottennero un giorno di tornare a casa».
«Tutto quello che ci hanno fatto lo devono pagare»
È ancora Mancini a far conoscere al Parlamento le condizioni dei coloni, leggendo alcune loro lettere inviate ai familiari in Calabria dal Brasile.
«Cara madre, ti scrivo con un po’ di ritardo, causa che ho voluto prima vedere la situazione. Qui tutto male. Ci hanno imbrogliato bene, a cominciare dalla paga che non basta solo a me per il sapone e per qualche pacchetto di sigarette, perché qui è un caldo che non si resiste. Ci danno 35 cruzeiros che ammontano a mille lire italiane; 500 se le trattengono al giorno per la mensa e le altre se ne vanno così: sapone prima base, perché qui è una terra rossa che siamo diventati tutti rossi. Quindi questo anno ci debbo stare, perché c’è il contratto che ognuno di noi ci dobbiamo fare un anno di lavoro; appena finisco sono con voi. Un anno di sacrifici, ma tutto quello che ci hanno fatto a noi i signori lo devono pagare».
«Fuori dalla civiltà umana»
Un altro colono sangiovannese si rivolge così al marito di sua sorella: «Caro cognato, in quanto mi dite che avete inoltrato domanda per venire in Brasile ti prego di rinunciare subito. Le nostre condizioni sono molto tristi in quanto non abbiamo niente di buono. L’acqua viene tirata dai pozzi; è filtrata, un’aria tropicale e un caldo insopportabile. Come paga non abbiamo niente; come vi ho già scritto che abbiamo 35 cruzeiros, 15 di mensa, 10 se li trattengono per il viaggio, e possiamo mandare il quaranta per cento del guadagno ma non dobbiamo fare nient’altro né fumare, né bere una birra né sapone; fatevi voi il conto se possiamo mandare soldi a casa; e non possiamo neanche scrivere a nostro piacere: per i francobolli ci vogliono 6 cruzeiros. Caro cognato qua si vive fuori dalla civiltà umana, non c’è distinzione di giorni, né domeniche, né feste, sono tutti i giorni uguali. Sono andato alla direzione della nostra compagnia e ci ho detto che ci rimpatria subito così sono io che vi devo raggiungere».
Fuga dalla schiavitù
I contadini silani a Pedrinhas sono tra i primi a ribellarsi. Minacciano di dare fuoco alle case appena costruite e nel giro di un anno si ritrovano praticamente tutti al porto di Santos per tornarsene in Sila. Le fughe dalla colonia sono solo all’inizio. A settembre del 1953 oltre 150 coloni italiani scappati da Pedrinhas sono a São Paulo in attesa di rimpatrio. Le famiglie vanno via in piena notte, incuranti di aver abbandonato casa, attrezzi, bestiame.
Un anno dopo 170 coloni già ingaggiati con contratti capestro lasciano Pedrinhas, denunciando di aver subito un trattamento da schiavi. Restano per mesi nella Hospedaria de Imigrantes di São Paulo dove li trattano «peggio dei prigionieri», abbandonati da tutti. Rosario Belcastro, futuro dirigente della DC e della Cisl calabrese, pur di farsi rimpatriare preferisce spacciarsi per comunista agli occhi della polizia brasiliana, finché questa non lo accompagna alla frontiera e lo rispedisce in Sila.
Basta Pedrinhas: l’Opera Sila e i passaporti strappati
I calabresi a restare a Pedrinhas sono pochissimi, come ricostruisce Pantaleone Sergi in un articolo per il Giornale di Storia Contemporanea del 2016 che ripercorre il progetto brasiliano dell’Opera Sila. Ci sono Biagio Talarico, che è arrivato lì con altri familiari presto rientrati tra i monti calabresi, e il sarto Francesco Mascaro. Entrambi, però, si trasferiscono dopo pochi anni in città più grandi. E c’è Francesco Romano, che resiste invece in mezzo a quella terra roxa «che penetra ovunque, si respira nell’aria, s’attacca ai panni e alla pelle, colora di rosso ogni cosa, segnando tutto col suo marchio inconfondibile».
Poco tempo dopo lo raggiungerà anche un fratello, ultimo dei “bra-silani” di quel poco riuscito tentativo di emigrazione programmata. E gli altri lavoratori ingaggiati in Calabria? Niente più Pedrinhas per loro, riferirà ancora Mancini in Parlamento: si sarebbero presentati negli uffici dell’Opera Sila per poi stracciare il passaporto in faccia ai funzionari dell’ente «che, per incoscienza o per cinismo», si erano dati da fare «per fornire altra carne di lavoratori di San Giovanni in Fiore al Brasile generoso e ospitale di Caglioti».
Pedrinhas Paulista, 2023
Settantuno anni dopo la sua fondazione, Pedrinhas Paulista è una cittadina di circa 3.000 anime, il doppio rispetto agli anni ’50, in buona parte di origini italiane. Le stradine si incrociano con Avenida Brazil e Avenida Italia, arterie principali del paese, e pare si viva anche bene da quelle parti. Di certo, meglio che agli inizi. Ci sono statue di centurioni e della Lupa capitolina che allatta Romolo e Remo. Una targa ricorda i nomi dei primi coloni e i loro sacrifici per tirare su il villaggio. Accanto alla chiesa di San Donato c’è il Memorial do Imigrante. Un grande arco, un colonnato e gli stemmi dei posti da cui arrivarono i “padri fondatori”, Regione Calabria inclusa.