Nel 1876, Vincenzo Dorsa, insegnante di latino e greco al liceo Telesio di Cosenza, scriveva sulla Pasqua nella Calabria Citeriore:
«Ed eccoci alla Pasqua. La precede ed inaugura il sabato santo, col fantoccio di cenci, la vecchia dalle sette penne, che si lacera o brucia, coi pani ornati dell’uovo di rito, con l’acqua nuova che si attinge alle fontane. L’acqua e l’ovo adunque col sole di primavera trionfante dell’inverno, nella occasione della Pasqua, ricordando la origine del mondo che si rinnova mercè l’opera riparatrice di Cristo. Perciò in Calabria ogni famiglia si provvede allora dell’acqua nuova: la ripone in un orciolo nuovo, e questo adorna di nastri e di fiori, munisce di un briciolino di sale appesovi a un filo come rimedio contro le malie, e manda al prete per benedirla.
Di poi ciascuno della famiglia, cominciando dai genitori, ne saggia un poco; e quando le campane della Chiesa suonano a festa per celebrare la resurrezione di Cristo, di quell’acqua spruzzano la casa, dicendo ad alta voce: esciti fora sùrici uorvi, esciti forza tentaziuni, esca u malu ed entri u bene, e picchiano imposte di porte e di finestre, casse e le altre masserizie, invocando così la buona fortuna e l’abbondanza».
Pasqua, Cosenza e la sua provincia
Il racconto di Dorsa sulla Pasqua a Cosenza e dintorni proseguiva così: «In tali momenti l’affetto da scabbia a Cetraro si getta a bagnarsi nel mare vicino, credendo acquistare con questa purificazione la sua guarigione; a san Pietro in Guarano scende a bagnarsi nel fiume, però di notte, prima dell’alba della domenica e senza proferire parola alcuna. Ed albeggiando la Pasqua le contadine di Aprigliano scendono al loro Crati col cucùlo adorno di uova, rivoltano le pietre che trovano alla riva, si siedono e innanzi a quelle acque mangiano di quel pane e di quelle uova. L’acqua nuova intanto si conserva come cosa sacra, e poiché si crede rimedio contro le malie se ne spruzza anche sul fuoco o sulla lucerna quando la legna o il lucignolo scoppiettano, per iscongiurare tali infauste manifestazioni del fuoco che parla, come dice il Calabrese».
Oltre all’acqua, poi, c’era l’uovo. «I pani pasquali – prosegue Dorsa – sono rattorti a spire, di forma o lunghi o a corona, con un uovo o più, ma in numero dispari, e in qualche luogo colorate di rosso. Hanno diversi nomi: muccellati (lat. buccellatum), culluri o cudduri, cullacci o cucùli, cucùdi, cannilieri, lunghi circa due palmi, cuzzupe, ecc. Se ne fanno dono alle famiglie in lutto e ai bambini: a questi, se maschi si dà un cucùlo o un canniliere, se femmina uno di forma lunga raffigurante un corpicino, con l’uovo nel viso, che la bambina ravvolge in fasce, e gli copre di cuffietta e nastri il capo. A Castrovillari si chiama ciuciu, in Altomonte ciùcciulu, in Longobardi martiniellu, diminuitivi forse dei corrispondenti nomi propri, come in Roma si chiamavano càjoli, da Cajus, le ciambelle raffiguranti immagini di bambini.
Il racconto di Dorsa sulle tradizioni locali si faceva più analitico: «Riassumendo le cose esposte; poiché Cristo nel linguaggio simbolico cristiano fu detto il sole della vita dell’anima, in contrapposizione al sole fisico, di cui i pagani celebravano il ritorno primaverile, e risorse in tempo appunto di primavera, è naturale che le genti di allora nel solennizzare la memoria di quel grande avvenimento cristiano gli avessero applicate le mitiche tradizioni immedesimate coi loro costumi, confondendo così in un simbolo la quaresima e la stagione invernale, la resurrezione di Cristo e quella del sole sepolto nel cielo nuvoloso dell’inverno.
Pasqua, Cosenza e i sepolcri
È perciò che a Cosenza dura tuttavia l’uso di offrire ad ornamento dei sacri sepolcri de’ piattellini di grano di fresco seminato e spuntano per efimera germinazione: sono questi i così detti orti di Adone, che offrivano le donne fenicie e le greche, come simbolo della vita che rinasce, nella festa commemorativa della morte e resurrezione del dio Adone, mito solare. È perciò che la pasqua diventava persona mitica nel linguaggio popolare, dice alla quaresima: esci tu vecchia arraggiata, ca trasu iu pasca arricriata; come la quaresima aveva detto già congedando il carnevale: esci tu porcu ‘nzunzatu (lordo di sugna), ca trasu iu netta pulita».
Alcune tradizioni legate alla Pasqua di Cosenza e della sua provincia si sono perse e altre sono rimaste. Nei paesi era presente una coscienza collettiva, un sostrato culturale tramandato oralmente di padre in figlio, una forza nascosta che dettava norme e regole sociali e faceva sentire gli individui parte di un gruppo. Le comunità erano rette da una serie di modelli indipendenti dalla psicologia dei singoli e che gli uomini accettavano anche se in contrasto con i propri interessi. Si trattava di un complesso inconscio e profondo, radicato nell’esperienza vissuta, stabile e resistente al punto da condizionare la stessa struttura sociale, fatto da istanze sovra-individuali che determinavano il comportamento dei membri della collettività e garantivano legami continuativi con i padri.
La vita sembrava essere governata da regole sociali immutate e immutabili che aiutavano gli individui a sentirsi parte della comunità. Ma gli uomini non sempre si uniformavano alla cultura collettiva fissata nel tempo. Recepivano e assimilavano continuamente novità di pensiero che provenivano dall’esterno. Le montagne e le scarse vie di comunicazione sembravano isolare i paesi dal resto del mondo, ma tutto questo non impediva le relazioni con le altre comunità e il processo di assimilazione di altre culture. Perfino nei borghi più sperduti conoscenze diverse penetravano e finivano per essere ritenute nonostante gli abitanti fossero restii ad accogliere e interiorizzare nuove idee. Le mentalità, all’apparenza immobili, seguivano un loro ritmo evolutivo senza interrompere la continuità che le legava al passato. Pratiche religiose, credenze e miti erano destinati a sotterranee trasformazioni; mutavano di significato di pari passo alla sensibilità comune e si adattavano progressivamente alle nuove realtà.
Pasqua, Cosenza e la cultura contadina
Non bisogna confinare le mentalità del mondo popolare nel campo di una storia immobile, in un quadro statico e angusto, considerarle un semplice terreno di coltura e di persistenze arcaiche. È ingenuo pensare che la cultura dei contadini fosse spontanea e si riproducesse di generazione in generazione senza un disegno, che si acquistasse senza sforzo sin dalla nascita, mentre quella dei colti fosse capace di produrre conoscenze perché prodotte dalla ragione e trasmessa da specialisti del sapere. Prese dallo sforzo quotidiano per la sopravvivenza, le classi subalterne sembravano riprodurre meccanicamente abitudini e consuetudini, ma in realtà erano produttrici di culture diffuse con mezzi semplici quali l’oralità.
Nei villaggi esisteva una complessa dialettica tra gruppi sociali che, di volta in volta e a seconda delle convenienze, si sviluppava sul piano della conservazione o dell’abbandono di pratiche e credenze antiche. Il patrimonio culturale di un territorio nei suoi vari aspetti, rammemorazione compresa, è frutto di una continua lotta. Spesso si considera la memoria di una comunità come un organismo dotato di uno spirito unico, un crogiolo che contiene i ricordi di tutti. In realtà accade spesso che gruppi d’individui non trasmettono le loro esperienze alle generazioni successive, che nel processo di ricostruzione del passato alcuni fatti sopravvivano e di altri si perda ogni traccia.
Gli uomini non sono in grado di ricordare tutto, ma neanche di dimenticare tutto. Memoria e oblio vanno insieme, l’una non può fare a meno dell’altro. Il tempo, lentamente e inesorabilmente, lavora per fondare certe memorie, per esaurirne il potenziale o, addirittura, per eliminarle. Ricordare e dimenticare è frutto dell’incessante lavoro d’invenzione e reinvenzione della memoria, risultato di continui scontri e patteggiamenti, tanto a livello individuale che collettivo, tra ciò che bisogna ricordare e ciò che bisogna dimenticare.
Le mentalità si modificano: a volte possono sembrare salde e incontaminate, altre mutano bruscamente per rispondere a nuove sensibilità. In alcuni periodi credenze e valori prima dominanti cessano di esserlo, in altri si avvicendano tra sentimenti opposti, in altri ancora si sovrappongono o s’incastrano tra loro.
La memoria subisce una continua metamorfosi e una reinvenzione. Gli individui e i gruppi sociali selezionano, reinterpretano e rifondano il passato alla luce di quello che sono diventati, ricordando il passato lo ricreano e gli attribuiscono un senso in relazione alla loro idea del presente. Le credenze si tramandano di generazione in generazione, ma nel processo interpretativo della tradizione subiscono una variazione; le narrazioni sono mutuate da storie che vengono rielaborate e adeguate a nuove realtà, a cui gli individui apportano il proprio personale contributo.