Paolo Migliazza merita. Questa cosa non l’ho capita subito, cioè quando l’ho conosciuto qualche anno fa. L’ho capita un po’ dopo, quando entrai per la prima volta nel suo studio, il vecchio laboratorio in un sotterraneo di via del Pratello, a Bologna. Non tanto per l’ambientazione, che aggiungerebbe già di per sé una patina di bohémien di cui Paolo non ha minimamente bisogno, quanto per l’impatto visivo ed emotivo all’ingresso di quel luogo. E certo, uno studio d’artista è sempre una fucina magica più o meno a soqquadro a seconda delle inclinazioni del personaggio. Ma questo aveva in più qualcosa tra l’inquietante e un certo senso di estraneità rispetto al tempo. Ricordo un’intera stanza piena di busti di bambini, pochi ancora in lavorazione, molti finiti, tutti silenziosi ma in qualche modo urlanti. Qualcuno coperto, qualcuno rotto. Una specie di piccolo Esercito di terracotta under 18 e soprattutto inerme.
Perché hai cominciato proprio con la scultura anziché con un altro mezzo espressivo?
«Ho cominciato da bambino, toccando e giocando con la terra, stando in campagna dietro a mio nonno. I miei nonni erano da una parte operai, e dall’altra piccoli proprietari terrieri. Tutti di Girifalco. La terra l’ho sempre respirata, in particolare col nonno paterno, come spesso succede giù. E in campagna, uno dei modi che avevo per giocare, per inventarmi e costruirmi le stalle degli animaletti era prendere la terra, paciuccarla e creare i vari spazi. Il mio primo approccio alla scultura è stato questo, ludico, abbastanza inconscio».
Strano che proprio a Girifalco fosse nato un altro artista, con un cognome simile al tuo e che forse ti assomigliava pure un po’, il garibaldino Antonio Migliaccio…
«Nessun collegamento. L’arte l’ho assorbita un po’ da mio padre, che è stato sempre un po’ appassionato, anche non avendola mai potuta praticare. Ma io mi sento del tutto figlio, anzi, nipote di una dimensione contadina, anche nell’accezione più bella e romantica del termine».
Contano, e molto, le radici?
«Le radici sono un elemento costituente della personalità, ma che noi non razionalizziamo. Assorbiamo il retaggio culturale della storia dei luoghi in cui nasciamo e cresciamo e ce li ritroviamo nelle scelte che facciamo, specialmente in ambito artistico».
Il fatto di aver iniziato con la terra ha condizionato quindi anche la scelta dei materiali con cui lavori oggi?
«Sì e no, nel senso che quella è stata una scelta di comodo perché la conoscevo bene. La potevi costruire e distruggere, modellare la forma da 0 a 100 e da 100 a 0. Poi c’è anche la condizione del lavoro. La scultura ha qualcosa che tanti altri linguaggi non hanno: devi mettere in conto anche la stanchezza, il lavoro fisico, e non solo quello psicologico legato all’idea».
Quali modelli di ispirazione hai avuto?
«Negli anni di studio sono venuto spesso a Bologna ma non ci ho trovato mai niente di interessante… mi ero formato in una piccola bottega locale… quello che mi ha veramente toccato è stato quando, al Parco Archeologico di Scolacium, Alberto Fiz curò per due anni Arte Nel Parco, una mostra collettiva all’interno degli scavi (con opere di Paladino ecc.); poi quello che mi ha smosso di più è stato Time Horizons di Antony Gormley: aveva installato sui pendii 100 calchi in ferro pieno e nonostante l’orografia, insomma le curve di livello altimetriche del parco fossero incoerenti, le 100 figure restavano tutte esattamente sullo stesso piano, disegnando idealmente una linea d’orizzonte che guardava verso il mare. Poi ho intervistato Aron Demetz per la tesi, ed è gente che mi ha messo un po’ in pace col mondo. Lui, Walter Moroder, Bertozzi e Casoni, mi hanno fatto capire che si poteva ancora fare la scultura figurativa. Io pensavo fosse una roba legata al Novecento e invece oggi è più viva di altri linguaggi.
Ricordami quell’installazione tua e di Nicola Amato, che vi feci portare ad Aliano al festival di Franco Arminio (la gloriosa e indimenticabile edizione de “La luna e i calanchi” di fine agosto 2016)…
Fu una cosa fatta solo per quell’occasione, ed era un’installazione assolutamente site-specific. Avevamo utilizzato circa 200 vecchi mattoni conici forati, le pignatte che venivano utilizzate per fare soffitti e controsoffitti. Avevano un buco sulla testa e uno sulla base, così da trattenere il calore ma contrastare l’umidità, una sorta di coibentazione. Ce le caricammo in macchina io e Nicola, da Girifalco ad Aliano… 270 km. Arrivati lì scegliemmo lo spazio che ci interessava di più, il pianterreno di una casa antica, con in mezzo la bocca di un pozzo. Rovesciammo le pignatte in modo praticamente casuale, considerato anche il fatto che quelle cadute orizzontalmente finivano per rotolare… sarebbe da rifare. Ma poi com’è che c’eravamo finiti?
Niente, fu che l’anno prima fui invitato da Franco Arminio sempre ad Aliano, dove facevo una specie di seminario folle, itinerante, che si intitolava “Viabilità a misura d’uomo contro gli attacchi di panico (tornando all’Italia di prima)”, che poi era la base di partenza della rubrica “Strade Perdute” che sto curando su questo stesso giornale… Ma torniamo a te e cerchiamo di uscire un po’ dal tecnico. Qual è stata la tua soddisfazione maggiore?
«Sicuramente l’esperienza con la Galleria L’Ariete di Bologna, il mio battesimo del fuoco in termini concettuali, quando ho fatto We are not superheroes, e ho cercato di trascinare la scultura nella contemporaneità».
I tuoi bambini, meravigliosi e inquietanti… perché proprio i bambini?
«Da un lato era la necessità di uscire dal seminato dello studio accademico, dei modelli e delle modelle, dall’altra iniziavo a riflettere su una mia visione personale, una mia traccia visiva. Anche su quello che era il mio passato: ho giocato per strada e nella mia memoria c’è questo imprinting per cui ho plasmato questi bambini che riporto ad un’immagine minima relazionandoli alla scultura arcaica: sono fermi, non giocano, non hanno rapporti tra di loro ma nemmeno con i grandi. Sono dei bambini vecchi».
Una volta mi hai detto che questi bambini sembrano buoni ma in realtà sono cattivissimi.
«Conosci bambini buoni? Tutti i bambini sono cattivi. Il male che ci si fa tra bambini è tremendo… Ne Il Signore delle Mosche Golding ci insegna che i bambini sono la peggiore cosa che possiamo incontrare. Perché sono terribilmente schietti.
Non è che poi crescendo le cose cambino molto… Detto ciò: i tuoi sono bambini belli… perché? Forse per una forma inconscia di politically correct per cui non vorresti far passare la cattiveria infantile attraverso tratti somatici sgradevoli?
«Riguardandone alcuni che non ho mai esposto, diciamo che non li metterei sul podio dei più belli della classe».
Sono anche molto fotografici, icastici, ma spesso è come se non avessero gli occhi…
«Li hanno velati: quello che voglio è eliminare un aggancio emotivo diretto, ecco perché eliminare l’occhio. Nella mia visione, velare gli occhi significa riportare tutto al corpo e alla semantica del corpo. Una scultura che diventa vicina fisicamente ma lontana a livello emotivo. Non mi interessa che passi la mia idea. Interessa che la mia opera riesca a far sentire lo spettatore davanti a un dispositivo aperto. Poi sta a lui».
Prossimi progetti?
«Il MABOS (Museo d’Arte del Bosco della Sila), è un museo d’Arte Contemporanea situato nella Sila catanzarese. L’imprenditore, Mario Talarico, ha aperto questo parco scultoreo offerto per la realizzazione di opere site-specific che rimangano lì. E poi sono stato invitato al Premio San Fedele, a Milano».
Quindi, in parte, un temporaneo ritorno alla Calabria. Tutta l’Italia è paese?
«Tutta l’Italia è provincia. L’Italia non è mai riuscita a vedersi come una nazione protagonista, ma ha sempre avuto una visione subalterna di se stessa».
A parte forse durante il Rinascimento, anche se non c’era una sola Italia…
«Esatto… era più internazionale e centrale cinquecento anni fa che non oggi».
Cosa consiglieresti a un diciottenne artista di oggi?
«Niente. Gli consiglierei di annoiarsi».
Questa l’ha detto anche Paolo Sorrentino…
«Ed è giusto. L’eterna provincia d’Italia, che è il Sud, e in particolare la Calabria… in questo ci aiuta. La provincia ti lasciava la libertà della noia perché non era a contatto con una contemporaneità stressata dai mezzi di comunicazione. Mi sento fortunato».
Però fa scaturire anche recriminazioni…
«Certo, il fatto che ci sia sempre una sorta di clientelismo. Il fatto è che spesso giù – ora un po’ meno – c’è sempre un po’ una visione per cui la cultura sembra di minor valore e rischia di mischiarsi alla sagra di paese. La Calabria è come una macchina supersportiva che potresti mandare a mille e invece la lasci ad arrugginire nel vialetto dietro casa perché ti vergogni di farla vedere…».
Le immagini all’interno dell’articolo raffigurano alcune sculture di Paolo Migliazza della serie “We are not superheroes”. L’autrice degli scatti è Rosa Lacavalla