Ragazzi di Paola

Noia, sogni infranti, corse folli e il richiamo delle mafie. La meglio gioventù che non c'era nella città di San Francesco

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Appartengo a una generazione di sognatori donchisciotteschi che desiderava un altro mondo e ha visto peggiorare e incancrenire solo quello che aveva davanti. Ognuno di noi ha diritto alla propria nostalgia. Io la vivo però ancora come una lotta, come un duello, una sfida ostinata al presente, alla sua dittatura. Perciò qualche volta preferisco voltarmi indietro. Ma ci sto attento. Non amo impantanarmi nei rimpianti e non mi va proprio di cadere nella trappola nostalgica che ti allontana dalla verità e ti fa disattendere la prova più dura, quella che ti prepara la realtà che ti cade addosso, unica e finale, un giorno dopo l’altro.

Don Chisciotte e Sancho Panza

Troppo spesso in questi ultimi anni vissuti in Calabria, tra andate e ritorni, ho visto levarsi solo un deserto arido e informe, senza più paese, senza più memoria. Quando sto per qualche tempo fermo a rimuginare, è il luogo che prende il sopravvento. Ma il luogo di oggi, quello in cui vivo, che per me non è più Paola. Quasi non ci torno più a Paola. Ormai quello che era il mio paese, è un ibrido dei nostri tempi, decomposto e senza bellezza, retorico e scarso di relazioni, dove si vive la «collettività senza festa» e si soffre la «solitudine senza l’isolamento». Questo è il mondo che ci rimastica la vita, questa è la consegna di futuro che abbiamo preparato per i figli. Ora ci sono altri ragazzi di Paola. Qualche volta li osservo. Mi ci rivedo, anche se sono così strani e così lontani, così induriti e definitivi rispetto a quello che ero io nei miei tempi di esitanti incertezze e metamorfosi. Ma mi sento, e forse sono ancora, come i ragazzi di Paola; quelli di adesso però. Anch’io vivo sull’orlo di una terra di nessuno dove è sempre più facile perdersi, liquefare il proprio essere, scoppiare continuamente in singhiozzi, fare e farsi del male, persino morire di noia. Finché non si resta nuovamente soli. Come “I ragazzi di Paola”.

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Enzo Siciliano

Questo racconto nasceva nel 2003 da un progetto narrativo di Enzo Siciliano. Siciliano, allora direttore di Nuovi Argomenti, aveva voluto un mio racconto, che fu intitolato «I ragazzi di Paola», per Italville, l’antologia di «nuovi italiani narratori sul Paese che cambia», pubblicata in un numero monografico della rivista Nuovi Argomenti e uscita per Mondadori nel corso dello stesso anno 2004. Era una silloge, con uno scrittore e un racconto per ogni regione del Paese (un giro d’Italia nella quale erano presenti giovani scrittori allora agli esordi come R. Saviano, M. Desiati, D. Bregola, A. Piperno, V. Parrella, M. Signorini , F. Pacifico, e altri) che Enzo Siciliano volle e ispirò come piloti per un viaggio dal vero, una specie di rotazione infernale attraverso i luoghi della provincia profonda nelle regioni dell’Italia di adesso. La scelta di Siciliano per la Calabria cadde su di me. Credo sia accaduto anche perché ero calabrese e perché scrivevo già cose da “eretico”, come Rocco Carbone (anche lui a quel tempo a Nuovi Argomenti), e storie di una Calabria obliqua, come piaceva a lui, a Siciliano. Un giovane (allora) antropologo calabrese, orgoglioso e ruvido, temprato a resistere agli antipodi, con la follia di un certo stile. «Ma tu come fai a restare, a resistere?», Enzo me lo chiedeva sempre alla fine delle nostre lunghe chiacchierate. Ma la risposta la sapeva, era la stessa che forse avrebbe dato lui al posto mio. Come me e diversamente da me, Enzo era innamorato di un Sud e di una Calabria irrisolta e proteiforme, sordida e bella a dispetto di ogni retorica meridionalistica. Chiedeva sempre: di questa Calabria sconnessa, sbranata dal suo vitalismo scellerato, di questo mondo di provincia eccentrico e disperato in cui si rappresentano l’incoscienza del presente e forse una voglia maligna di offendere, distruggere e negare tutto ciò che è stato e non si comprende più. Il grado zero di una modernità in cui tutto è contemporaneo, colorato, imputtanito, adulterato, travestito, violento, contaminato, feroce e sottosopra. Un crogiolo di fatti, cose e persone ineffabilmente complesso, e pure sorprendentemente nuovo e vitale; un anticipo di non si sa quali destini planetari futuri, dovrei dire col gergo debolmente profetico del mio mestiere di antropologo. Per lui, Siciliano, la Calabria era sua prima frontiera, un punto di origine, un confine lontano e ormai sorpassato. Per me a distanza di anni invece è ancora resta quello stesso geroglifico, un senso che sfugge e accompagna la strada dei miei giorni. È rimasta lì la mia linea d’ombra.

***

Non si ritrovano davanti alla piazza più grande. Quella antica con la fontana monumentale, dietro il fòrnice della bella porta barocca. Appena oltre il grande arco di tufo col baldacchino e la statua seicentesca di San Francesco di Paola. L’angolo di centro storico più bello e risparmiato, frequentato di tradizione da tutti gli altri ragazzi del paese. Il posto da sempre di quelli un po’ più giusti e garantiti, dei figli di gente bennata, i professionisti e la classe media del posto. Loro no. Non appartengono a quello spazio. E quello spazio non appartiene a loro. Oltre la porta non mettono mai piede. Il loro spazio è dalla parte opposta, sull’altro margine. Un posto di riflusso sul bordo del paese. Gli altri ragazzi di Paola sembrano piuttosto provenire da un punto remoto e senza origine. Come le loro facce. Facce indurite come da una vernice scialba. Facce di adolescenti con alle spalle vite ordinarie e appena decenti. Figli di gente comune. Diverse però dalle facce dei padri e delle madri somiglianti con una pienezza plastica e persino scontata a quelle dei nonni, replicate nella catena del sangue e dei gesti, delle abitudini e del dialetto di casa. Facce di appartenenza a una famiglia, a una casa, al quartiere e al paese, a uno scopo che ne dichiara la vita. Eppure, sono volti di adolescenti che si attirano l’un l’altro con innumerevoli sosia.

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L’Arco di San Francesco di Paola (foto Wikipedia)

Mi torna in mente che ragazzi e ragazze con sembianze e facce così ne ho già visti in tanti posti, in giro per il mondo, lontano da Paola. A Brixton, nei quartieri sudici per immigrati indiani e di colore, oppure nei recessi umidi e piatti dei quartieri senza nome della sterminata banlieue parigina. Facce simili per l’immatura durezza, solo un po’ più pallide e slavate di biondo, ne ho viste di recente anche a Budapest e a Praga, nei branchi di adolescenti sottoproletari radunati vicino a una caffetteria della catena Monoprix, vicino ai tetri quartieri di edilizia popolare, (i vecchi Block dell’era sovietica, che andando verso la periferia di Mozartova circondano l’immenso cubo di cristallo dell’Hotel Movempick). E anche a Genova tra i vicoli e le piazzette del quartiere del porto vecchio affollate dai ragazzi di famiglie meticce e dalle giovani prostitute colombiane, con i nuovi arrivati dall’altra sponda del Mediterraneo, sguardi più lesti e rappresi in una smorfia di pericolo, diventati in poco tempo i padroni abusivi dei vecchi quartieri-medina intorno alla Lanterna, pieni del loro caos malfidato e furfantesco.

Paola è sempre stata un po’ anche la città delle Vespe

La sera i ragazzi di Paola si ammucchiano tutti nello stesso posto, radunati dalla scia di casino e di fumi di scarico lasciati dietro sulle strade vuote del paese assieme con il latrato metallico dei loro motorini smarmittati. Le ragazze appiedate smanettano sui loro telefonini e bestemmiano feroci in attese nervose andando su e giù dai marciapiedi del Corso. Poco dopo essere stati richiamati coi telefonini qualcuno dei ragazzi con cui hanno in quel momento la storia arriva sparato con lo scooter, e sempre ringhiando e strappando brusco coi freni passa a caricarle in sella per il giro che apre la serata. Si ritrovano e non si contano, le compagnie cambiano sempre. Certi, a dispetto delle facce scipite di adolescenti, con i capelli rasati fino alla cotenna o le zazzere irsute schizzate di gel, le sigarette sempre accese, fanno sguardi minuscoli e malvagi. Poi passano la notte tirando tardi con le birre. Si spaccia e ci scambia un po’ di roba, si litiga per accaparrarsi le ragazze più facili con cui andare a ficcare nelle macchine sulle scarpate tra il lungomare e la ferrovia.

E poi viene il bello. Ci si sfida. C’è sempre qualcuno pronto a fare la gara con il macchinario nuovo, col seconda-mano rifatto o col motorino truccato. La gara parte sempre da dietro una curva che imbocca la parte più alta del corso, poi si tira il gas al massimo, venendo giù per quasi un mezzo chilometro di rettifilo in discesa, fino a 100-120, con il motore a pieni giri fino al curvone della villa comunale. Solo allora si tirano i freni. Qualcuno ritarda, sbaglia la frenata e arriva lungo, sfasciandosi sul muretto del recinto. Qualche volta ci scappa anche il morto. La mattina si vedono per terra i cocci delle plastiche e i frammenti scoppiati dei fari. C’è un nuovo segno, una tacca sul muro.
Chi resta ai tavoli al bar commenta le corse con animazione selvaggia e piglia parte alle gare. Ammirazione, emulazione, urla, fischi, spintoni e tifo da stadio. Non ci vuole molto a diventare eroi. Esultanza e grida per i motori spinti al massimo al passaggio dei bolidi truccati davanti al rettifilo del bar. Poi il corteo strombazzante del vincitore che rientra alla base. Qualche volta arrivano i carabinieri e sequestrano i mezzi, controllano i documenti a qualcuno.
Tra di loro c’è anche chi sa già come maneggiare una pistola. Forse fa già il soldato in una delle cosche che controllano il paese e ha già sparato a qualcuno in un’imboscata. Dopo pochi giorni di tregua è tutto di nuovo punto e daccapo. Dopo la gara di solito la serata, una volta consumato e smaltito l’orgasmo motoristico, torna alla sua monotonia cupa e fredda.

Vecchie cabine telefoniche

I ragazzi sembrano improvvisamente ammansiti, spenti. Ogni sera si trovano lì, sempre, estate e inverno, una calamita, davanti al bar alla fine del corso. Sono 50, tra ragazzi e ragazze, 13, 14 anni fino a 22, 23 al massimo. Mai di meno. Mai più grandi. Dentro il locale disadorno e illuminato a giorno dai tubi, ci sono solo le tre cabine chiuse del vecchio posto pubblico della Telecom frequentato dagli extracomunitari arabi e dalle grasse badanti polacche o ucraine per telefonare a casa. In mezzo troneggia il frigorifero dei gelati industriali, a fianco il banco della mescita con le bottiglie semivuote degli alcolici. Fuori si riflette nel buio l’effetto della grande insegna screziata dai neon colorati di rosso, nero e giallo, che d’inverno, le saracinesche spalancate sotto la pioggia, si riverberano con un fatuo luccichio da discoteca sull’asfalto pieno di pozzanghere, mentre dentro i tubi fluorescenti si diffondono con un effetto lattiginoso sulla plastica dei tavolini vuoti.

Il bar è là, dove lo stradone finisce in uno slargo polveroso, tra i palazzoni che spuntano davanti all’incrocio che sbocca sulla nazionale: il margine frastagliato del paese che dà verso la stazione e la marina trafficata. Un parcheggio per macchine e motorini piuttosto che una piazza. Una specie di frontiera labile e minacciata. Qui intorno tutto è anonimo, pieno di cascami, disadorno. Brutto, come tutto quello che si affaccia a giro di orizzonte intorno al covo di questi ragazzi. Le vecchie case basse e squadrate dei pensionati del quartiere ferroviario portati a spasso dalle tate ucraine, il tetro sarcofago di cemento armato del Tribunale Nuovo, e più in là i casermoni della marina e dei quartieri che si allungano disordinatamente sulla litoranea. Tutto senza un disegno, come sparso a casaccio, in un reticolo di antenne e parabole, tra case scorticate e mucchi di detriti, strade sterrate che si perdono in cantieri abusivi, cani randagi e lampioni rotti. Il morso del suburbio. Una periferia, si direbbe. Si, ma di cosa? Paola fa appena 17.216 abitanti. E Cosenza è nascosta dietro la costiera, a 30 km di superstrada. Non è mica una metropoli, Paola. Cittadina, si dice, con un vezzo amministrativo da anni Sessanta.

Treno in partenza dalla stazione di Paola

Qualcuno pretenderebbe di farne la sesta provincia della Calabria. Ridicolo. Sono povere illusioni agitate dalla malafede opportunista di qualche politicante scoppiato. Paola oggi è solo un vecchio paese afflitto e stanco, rassegnato da una storia oscura e stentata, sopraffatta da promesse tradite e da sconfitte secolari. Qui la gente sopravvive nella frangia opaca di un presente che non apre più al futuro. Lo scalo ferroviario ridimensionato movimenta ormai pochi treni, poche merci, e non c’è altro lavoro che non sia terziario rigonfiato e assistito: Asl, Ospedale, Comune, Tribunale, Comunità Montana, ferrovia, uffici. Vita sociale sempre più immiserita e degradata, amministrazioni che si susseguono sempre più mediocri e pretenziose. I politici sono professionisti pronti a tutto. I nuovi, peggio dei vecchi. I negozi chiudono a ripetizione. Affogati dai debiti e dal pizzo, rinunciano anche quelli che hanno aperto da poco, con le saracinesche che restano sbarrate e vuote sulle vetrine appena rimesse a nuovo. Il corso sta diventando un deserto. D’inverno alle 8 di sera non vi circola anima viva. Non c’è più un albergo in paese, neanche quello vicino alla stazione, trasformato da qualche anno in caserma di Polizia. Il turismo, la grande risorsa, si risolve nel rientro stagionale di qualche famiglia di emigrati e nel casino di una ventina di giorni tra luglio e agosto. Il grande cinema-teatro Odeon, altro dono della recente civilizzazione, sorto come risarcimento per la speculazione, ricavato sotto un enorme casamento di condomini e appartamenti anni ‘70, resta da anni inconsolabilmente vuoto e inutilizzato per gli spettacoli. Tra un po’ ne faranno un garage o un supermercato.

E poi c’è la mafia. Il pizzo sui negozi, gli appalti, la droga. Si lavora alla luce del sole. Di notte si bruciano macchine per avvertimento. Ci si ammazza, di tanto in tanto, per strada. I regolamenti di conti avvengono appena fuori, sul nastro della Statale 18, davanti ai ristoranti a un solo piano con i finestroni di allumino anodizzato. Gli accoppamenti si succedono con regolarità liturgica all’uscita dalle grandi sale per banchetti nuziali che occhieggiano sulla strada, sporgendo improvvisamente dal buio con le insegne spropositate dei neon multicolori. La nuova moda araldica delle insegne si è imposta anche nei negozi e in paese. Qualcuno si è già fidato di intitolare la propria macelleria rimessa a nuovo, Pork House. Mentre un altro meno esterofilo non ha esitato a chiamare il proprio negozio di tappezzerie e tendaggi Tendazioni, giocando forse inconsapevolmente sull’inflessione marcata che deforma le parole italiane nel dialetto di casa. Questo spazio immemore e caotico cresciuto ai margini sfrangiati del paese, è diventato però la scena ideale per fissare in tragedia i passaggi fatali dei malavitosi in questa terra di nessuno dei quartieri nuovi sulla marina. È la frontiere mobile dove tutto accade.

E il paese e lì, muto e impietrito. Le vecchie case di tufo a grappolo e le fitte palazzate del settecento corrusche, con balconi dalle imposte accecate da decenni di muffe, i terrazzi con le balaustre spezzate di tufo scolpito, i tetti di coppi e le facciate scorticate, le cupole delle sue chiese barocche con le squame colorate dei mattoni di Vietri incipriate dal sole del tramonto occidentale che si spalanca sul Tirreno. Paola sta lì in alto, una presenza incombente e ignorata. Come un resto. Un ammasso di vecchie pietre e muri pericolanti, che sopravvive appena sopra la testa di questi ragazzi dalle facce dure e inebetite che ogni sera vengono in processione col motorino dalle loro case dei quartieri nuovi dispersi sul bordo della marina. Migrano dagli alveari di case popolari costruite nella campagna abbandonata alla fretta edificatoria dell’INA Casa, ai geometri e agli speculatori di paese, alla buona volontà ignorante delle cooperative di ferrovieri, postali, telefonici e allo scempio ordinario delle case popolari dello IACP.
Questi ragazzi del bar guardano sempre per terra e non si voltano indietro. E dietro e in alto c’è Paola. Il loro passato. Il paese. C’è solo il bar, la birra dei nuovi pub. La noia di ogni sera.

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