Olio calabrese, una rivoluzione lunga due secoli

Nonostante la qualità delle materie prime, per centinaia di anni la produzione olearia in Calabria è stata tra le peggiori in circolazione. Metodi di conservazione e raccolta sbagliati rendevano il liquido rancido e utilizzabile solo per lampade e saponi. Oggi invece è un'eccellenza da esportare

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Si legge spesso sui social che sin dai tempi antichi la Calabria ha qualità che nessun’altra terra al mondo possiede: la gente più ospitale, l’aria più pulita, l’acqua più buona, il mare più bello, i paesi più ameni e i prodotti della terra più squisiti. La Calabria, insomma, è una terra benedetta da Dio. E, non a caso, gli storici antichi scrivevano che dopo il diluvio universale Aschkenaz, attratto dalla bellezza del paesaggio, dalla mitezza del clima e dalla fertilità della terra, si fermò nella regione. È bello essere fieri della propria patria, ma ciò non deve spingerci a falsificarne la storia.

Chi si loda s’imbroda

Gli stessi eruditi calabresi si rendevano conto che le eccessive lodi per la propria regione potevano svilire l’attendibilità delle loro narrazioni. D’Amato avvisava il lettore della modestia del suo lavoro. E, se lo studioso poteva cogliere «molto di riprensibile», esso era frutto della dolcezza e benevolenza per una terra che amava. Fiore ammetteva che l’affetto da cui si era rapiti alle glorie della patria non poteva che essere «vizioso», poiché lo storico, come Mida, tramutava in «oro di lode» tutto ciò che toccava.

Il compito, quindi, era quello di intingere la penna non tanto nell’inchiostro dell’affetto, quanto in quello del vero. Marafioti riconosceva che lo scrittore doveva anteporre il certo all’incerto. E si scusava con i lettori se non sempre aveva potuto verificare che coloro di cui scriveva fossero nati e vissuti a Cosenza. Dio, che conosceva ogni cosa, avrebbe avuto il pensiero di dare «ad ognuno il proprio luogo e a lui avrebbe dato il perdono degli errori».

Calabresi d’adozione

Spiriti non negava che molti personaggi celebri da lui descritti erano nati nei paesi vicini e che molti avrebbero potuto criticarlo per averli considerati cosentini. Egli precisava, però, che i paesi della provincia, quantunque lontani dal capoluogo, costituivano comunque le membra di quel corpo che era Cosenza! Rimproverava coloro che, per rendere grande la città, avevano annoverato tra i cosentini uomini come Guido Cavalcanti, nato e vissuto a Firenze, figlio di quel messer Cavalcante posto da Dante nella bolgia degli eresiarchi.

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Un ritratto di Guido Cavalcanti

Fiore lamentava «l’altrui rapacità» che aveva rubato alla Calabria i suoi «notabili» figlioli. E forniva con onestà un lungo elenco di personaggi celebri che per ambizione erano stati considerati falsamente calabresi: tra questi nientemeno che i guerrieri Agamennone ed Aiace, il legislatore Caronda, lo storico Erodoto, l’oratore Lisia, il poeta Ennio e l’imperatore Ottaviano Augusto!

L’olio calabrese e il marchese di Seminara

In Calabria tutto è bello e tutto è buono. Ma se oggi i produttori calabresi producono olio di ottima qualità in passato era pessimo. Didier scriveva che gran parte della popolazione faceva provvista di pane per un mese e lo mangiava condito con olio rancido. Come si potevano accettare queste privazioni quando viaggiando si attraversavano per giorni interi immensi «boschi» di ulivi e campi di grano?

Domenico Grimaldi, marchese di Seminara, nel Settecento scrisse un importante trattato per cambiare radicalmente il modo in cui si coltivavano le olive e le modalità di raccolta, spremitura e conservazione. L’olio calabrese era in genere nauseabondo. Per chi era «sensibile alla gloria della nazione», era doloroso sentire i forestieri burlarsi del gusto grossolano dei calabresi che giornalmente usavano un olio che altrove era utilizzato per lampade e fabbriche di sapone.

Il nobile riteneva che fosse necessario abbattere pregiudizi come quello di non potare gli ulivi e di non spremere le olive appena raccolte altrimenti l’olio avrebbe perso in quantità e qualità. Bisognava, inoltre, sostituire i vetusti e dispendiosi frantoi calabresi con quelli ad acqua alla genovese. E, per dare l’esempio agli altri proprietari, Grimaldi chiamò alcuni operai liguri per impiantare a Seminara un moderno trappeto.

I proprietari si rivolgono al re

Egli annotava che i calabresi, avviliti e sfiduciati, per secoli erano stati poco industriosi e non avevano perseguito nessun’arte, provvedendo ai soli bisogni necessari della vita. Riteneva ottimisticamente che i suoi consigli sarebbero stati comunque raccolti. Non era credibile che i proprietari degli uliveti si fossero «congiurati» a voler restare barbari rigettando tutte le novità «ancorché ne vedessero dimostrato l’utile».

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Istruzioni sulla nuova manifattura dell’olio introdotta nella Calabria. Napoli, Raffaele Lanciano, 1773.

Nel 1771, dopo aver perfezionato il frantoio genovese a Seminara e averne mostrato i vantaggi, dovette constatare con amarezza che le sue proposte non erano gradite ai conterranei. I vecchi «trappetai», incoraggiati dai padroni, screditavano il nuovo oleificio. E il «popolaccio», sedotto e intimorito «non ardiva a domandare l’abolizione delle antiche manifatture». I proprietari degli oliveti, resi vieppiù animosi dalla propria propaganda, portarono la «stravagante» protesta sino al re, implorando che non venissero imposti i nuovi frantoi consigliati dal Grimaldi.

L’olio calabrese? Buono solo per lampade e saponi

La caparbietà nella conservazione di certe abitudini mentali interessava più i proprietari che i contadini. Sentendosi minacciati dal cambiamento, i signori difendevano le tecniche tradizionali che da sempre avevano garantito la loro egemonia. Nel Settecento Galanti annotava che le olive prodotte in Calabria continuavano ad essere raccolte con le scope e lasciate macerare in trappeti desueti, cosicché l’olio prodotto risultava rancido, puzzolente e non commerciabile.

Qualche anno dopo, De Salis Marschlins scriveva che i «mulini da olio» della regione erano simili a quelli del Marocco. E che i contadini coglievano le olive addirittura nel mese di giugno, quando il frutto era marcio e dava poco e cattivo olio. Bartels confermava che la lavorazione delle olive era allo stato arcaico: l’olio calabrese era giallo e maleodorante. Persino quello che altrove era usato per far ardere le lampade, era più puro.

Carl Ulisses von Salis-Marschlins

Nell’Ottocento De Tavel osservava che gli ulivi di Calabria erano alberi d’alto fusto che davano ricchi raccolti. Tuttavia, l’olio prodotto era di pessimo sapore e veniva venduto alle fabbriche estere, soprattutto ai saponifici di Marsiglia e Trieste. Tucci commentava che i contadini, rispettando l’adagio «l’ulivo tanto più pende tanto più rende», raccoglievano le olive da terra e le spremevano, sporche di fango, guaste e puzzolenti in «grossolani» trappeti. Ottenevano un olio «che solamente può servire per i lumi, non essendo bono per gli usi di cucina e molto meno per mangiarlo crudo».

Olive ammucchiate

Un funzionario napoleonico confermava che i proprietari lasciavano imputridire le olive sul terreno e nei trappeti spremevano sia quelle buone che quelle guaste col risultato di produrre un olio «imperfetto». Pilati scriveva che un terzo delle olive veniva mangiato dopo averle seccate al sole o al forno, gli altri due terzi spremute e l’olio venduto in gran parte a mercanti spagnoli e genovesi.

Rilliet asseriva che le olive raccolte erano gettate in un truogolo, nel quale girava una macina che schiacciava il frutto e lo riduceva in pasta che posta su graticci di vimini era sottoposta alla pressa. L’olio che si produceva in Calabria lasciava molto a desiderare, perché un antico pregiudizio i proprietari ammucchiavano le olive in una cantina e non procedevano alla macinazione che quando la fermentazione era già cominciata e così l’olio era meno pregiato di quello di altre regioni e «non serviva che al basso ceto ed all’illuminazione».

Olive nere al forno

Rebuschini era convinto che il cattivo odore dell’olio fosse causato dalle olive che si raccoglievano una volta cadute ed eccessivamente mature si imbevevano del sapore del terreno. Se a ciò si aggiungeva il sistema primordiale di «fabbricazione» generalmente usato, si capiva perché l’immensa produzione di olio della Calabria era destinata alla combustione quando avrebbe potuto dare uno dei migliori oli del mondo.

Sistemi primordiali

Lombroso notava che le olive si facevano maturare sugli alberi finché cadevano e si lasciavano ammonticchiate nei magazzini prima di essere spremute: con questa pratica barbara si ricavava un olio di pessimo odore e peggior sapore, buono solo per le fabbriche di sapone. Per Rebuschini l’olio calabrese aveva gusto e odore cattivo perché le olive erano raccolte una volta cadute e perché il sistema primordiale di «fabbricazione» forniva un prodotto buono solo per la combustione.

In una inchiesta agraria del 1876 si legge che nella provincia di Cosenza le donne raccoglievano le olive quando cadevano al suolo, le trasportavano dentro sacchi all’opificio oleario dove, conservate dentro cellette in muratura, a volte rimanevano ammonticchiate anche per tre o quattro mesi e l’olio che se ne ricavava «per quanto era più grasso e pastoso, per altrettanto era di odore e sapore nauseabondo».

L’olio calabrese tre secoli dopo Grimaldi

Ci sono voluti circa tre secoli prima che i proprietari calabresi ascoltassero le raccomandazioni di Grimaldi. Oggi gli olivicoltori selezionano le olive, le raccolgono prima della loro completa maturazione e, con grande passione e perizia, producono un olio di altissima qualità. Il marchese di Seminara sarebbe felice vedere uscire dai frantoi della sua regione l’olio puro dal colore verde intenso contaminato da inebrianti profumi di piante e minerali.

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