Arrivano i giorni del Natale con i suoi preparativi, i giorni delle tradizioni popolari, delle riunioni di famiglia, del cibo cucinato con cura e consumato allegramente in comune. E c’è, o c’era, anche la preparazione del presepe, quello immortalato in commedia. Molti ricordano Natale in Casa Cupiello per quella domanda, un vero tormentone, Te piace ‘o presepe, che Luca ripete più volte al figlio (ad essere precisi, la domanda è Te piace ‘o Presebbio), che si ripete fino all’ultima scena, quando per l’ennesima e ultima volta, Luca Cupiello domanda -fiducioso e sconfortato- al figlio che non ne capisce il fascino: «Te piace ‘o presepe?».
Il presepe al centro della casa era anche il fulcro delle celebrazioni della fede popolare del Natale calabrese. La sua realizzazione era un rito fondamentale, ora è calante. Il presepe era un vero e proprio atto di creazione, un tentativo di riproduzione figurata dell’ordine del mondo, in cui il paese e la casa, macrocosmo e microcosmo, coincidono e diventano spazio domestico e sacro. Le rappresentazioni tradizionali parlano così attraverso le figure del presepe e della sua geografia, naturale e celeste, mettendo al centro il trionfo dei simboli della luce che risorge e prepara l’avvento.
L’angelo e Giampietru
Il presepe, una volta ultimato, doveva essere illuminato dalla luce della stella cometa.
La stella fissata sopra il cielo sulla capanna della nascita era il segno luminoso che avrebbe indicato ai magi il cammino che li avrebbe condotti la notte di Natale al cospetto della grotta e davanti alla nascita di Gesù, annunciata da un’altra creatura celeste, l’Arcangelo Gabriele, e da un’altra statuina, sempre presente tra le figurine dei pastori che popolavano il presepe, il Pastore delle Meraviglie, detto confidenzialmente Giamiupetru (Giovanni-Pietro). L’arcangelo e Giampietru, avvistatori di luce e stelle, contro le tenebre, annunciano l’avvento del il figlio di Dio, che adulto, nelle scritture rivelerà: «Io sono la luce del Mondo, chi segue me non cammina nelle tenebre, ma avrà la luce della vita» (Giov., 8,12), «Finché io sono nel mondo, sono la luce del mondo» (Giov. 9,5).

Il Natale della tradizione popolare avvolgeva quindi con la sua luce ingenua e fidente un mondo naturale e storico che mutuava ed assorbiva dalla natura i suoi significati più profondi e le sue più oscure fragilità, miscelandoli con riti e culture provenienti da più lontane latitudini.
Natale (e non solo) con le strine
Erano anche, questi, i giorni del suono festoso e dei canti popolari della strina e degli zampognari. Nei paesi del cosentino la strina (dal latino arcaico strēna, “auspicio, omaggio di buon augurio”, coincidente con il periodo dell’anno in cui gli astri risalivano il cielo nel corso del periodo dicembre-gennaio) è un canto in versi e in rima accompagnato da strumenti popolari, spesso ricavati da oggetti e attrezzi di lavoro della tradizione contadina. È il caso dei “sazeri” conosciuti anche come “murtari” o “ammaccasali”. Si tratta dell’antico mortaio in legno o in metallo usato per “ammaccare” il sale grosso delle conserve. Spesso al suono di uno o più di questi strumenti improvvisati si accompagnava una semplice chitarra, un mandolino, un tamburello ed una fisarmonica, a seconda del numero dei “cantori”.

Il gruppo di suonatori e cantori si recava casa per casa a portare la “buona novella” della nascita del Cristo, ottenendo in cambio un donativo a ringraziamento della visita. Alimenti come uova, formaggio, olio, vino e salumi. La “strina” veniva solitamente cantata nel periodo dell’avvento, che nel calendario tradizionale iniziava con la festa della Immacolata Concezione l’8 dicembre, e durava sino alla sera dell’Epifania il 6 di gennaio. Questa bella e conviviale tradizione è andata via via scomparendo anche dai paesi, anche se i canti della Strina sono diventati nel frattempo oggetto di studio e di raccolta degli etno-musicologi.
Canti a dispetto a chi rifiuta di aprire la porta
Come si svolgeva la strina? I cantori iniziavano augurando a tutta la famiglia ospite gioie e benedizioni, per passare poi agli auguri singoli ad ogni componente del nucleo familiare che viene chiamato per nome nella cantata, e al nome si legava un particolare augurio in rima. Si passa alla richiesta dei doni, al “fammi la strina”. A chi non avesse voluto accogliere i cantori e aprire loro la porta di casa, rifiutando l’ospitalità (rara circostanza), i “cantaturi” avrebbero rivolto stornelli “a dispetto”, una sorta di apologo improntato allo sdegno e a profezie di malesorte, che pur di non fatale entità, non suonavano certo liete come ad esempio: “Ammienzu sta casa ci penda nu lazzu, quanno ti lavi mu ti ruppi nu vrazzu”.
Senza essere chiamati
Ma quasi sempre la musica era festosa e la “cantata”, accompagnata dalla musica festosa che annunciava per le strade dei paesi una richiesta d’accoglienza e di offerta, era solitamente bene accetta e accolta con fervore come una questua votiva e un dono fatto al Bambino Gesù: «Senza essere chiamati simu vinuti/ oi simu vinuti/ ari patruni avia i bonu truvati/ chini di gintilizza e curtisia; Sentu lu strusciu di lu tavulinu/ è u patruni ca pripara u vinu; Sento lu strusciu di la tavulata/ è a signora ca porta a suprissata/; Sento lu strusciu di la cascitella/ chisti su i guagliuni ca piglianu a custatella/; Nun è vrigogna si purtamu a’ strina/ a’ strina l’ha lassata nostru Signuri/ la strina l’ha lassata a nua nostru Signuri”.
Natale era dunque la festa più grande della devozione popolare, il cuore di un mondo contadino calabrese che evocava nei simboli luminosi degli astri e delle stelle che comparivano nella geografia del cielo e nel piccolo mondo dei presepi con l’augurio del rinnovarsi divino della luce dell’avvento. Era la favola, il ricordo, l’incanto di un mistero di fede e di luce celeste. Vincenzo Padula, scrive nel 1864 ne La notte di Natale: “Pe’ lu cielu, a milli a milli/, a ‘na botta, s’appicciaru/, s’allumarunu li stilli/, cumu torci de ‘n ataru:/ e si ‘n acu ti cadia/, tu l’ajjavi mmienzu ‘a via/».
Natale al Cancello
Nella celebrazione domestica del Natale, il momento più bello era quando la “stella cometa” si tirava fuori dalla paglia, l’ultimo pezzo della cassetta dei pastori, per addobbarla come una corona luccicante sopra la grotta del presepe. Succedeva poco prima della notte di Natale. Le lustravamo col fiato incantato dei sogni le stelle del presepio. Comete dei sogni che restano ingenui.
Andavo a dormire a casa di mia nonna in certe notti freddissime di inverni della fine degli anni Sessanta. Uscivamo imbacuccati e infreddoliti per andare verso casa sua, a piedi, dalla casa di Via Cancello dove abitavo, fino in cima alla Motta di Paola, vicino al castello, quasi fuori dal paese. Niente macchine in giro allora. La statale 18 non l’avevano ancora costruita. Mia nonna era una donna energica, allegra e dal passo svelto, mi portava in salita e mi reggeva per mano.

Mi ricordo il buio e il cielo immenso, nerissimo, come un velluto impuntato di stelle tremanti. Tremavo anch’io per il gelo, e alzavo il naso nella notte per guardarle, inciampando sui gradoni ripidi tra i vicoli che portavano a casa della nonna Maria, in cima al paese. Le costellazioni rilucevano e sfioccavano nel buio siderale di quelle notti lontane come lampadine in un presepio agitato dal vento. Ero attratto dal buio, dalla luna, dalla vastità siderale. Tentavo di fissarle quelle stelle, e piangevo. Ero già miope, e senza occhiali, tentando di metterle a fuoco, lo splendore di quelle lucine remote nel cielo limpidissimo e nero si allargava sotto un velo di lacrime fredde che mi bagnava gli occhi.
Le stelle comete puzzano
E oggi? Le stelle, le comete? Anche quelle, hanno perso il loro incanto sotto le luci sempre accese dei consumi. Poi c’è la scienza, che scruta il cielo e fa la sua parte per distoglierci definitivamente dai miti dell’infanzia. Le stelle comete puzzano, pare, di uova marce e di zolfo. Qualche anno fa ne hanno sondato una – la “67P/Churyumov-Gerasimenko” con un coso supertecnologico costruito dall’Ente Spaziale Europeo, che l’ha fotografata. Ci si è piantato sopra, l’ha sfriculiata in vario modo la cometa e se n’è persino ciucciata un po’. Un assaggio di eternità.

Il risultato è che queste schegge di universo primordiale sono impastate di ghiaccio puzzolente e di polvere gelata, guasta, freddissima e piena di gas fiammeggianti. Corpi celesti andati a male, freddi, desolati. Puzzolenti. E ruotano inutilmente nel buio tra le costellazioni, sino a consumarsi come un mozzicone di sigaretta gettato per strada e spento dalla pioggia di un acquazzone. E ancora non lo sapevamo. Così sin dai tempi della creazione. Una scoperta che ci mancava. Che sarà molto utile agli scienziati che studiano i misteri della cosmologia. Microcosmo e macrocosmo corrispondono, sempre. Sappiamo anche questo adesso. Che le comete, anche quelle dei presepi, altro non sono che secchi asteroidi di ghiaccio sporco e fetido come il fondo dei frigoriferi a pozzetto di una cucina maltenuta.
Natale senza desideri
E adesso che è caduto pure il cielo dei presepi che ci resta? Anche i desideri (dall’etimo latino del termine de, origine, e sidus, stella, letteralmente, “contemplare le stelle a scopo augurale”, nel senso di trarne auspici e quindi bramare qualcosa-qualcuno), ormai non alludono più alla distanza tra il soggetto e l’oggetto di ogni desiderio, tra noi e le cose, al legame arcano tra l’anima e ciò che ci lega alla natura e agli oggetti stessi. Quello che una volta veniva dalle stelle oggi si compra o si scambia con il denaro e le merci della società turbocapitalista. E si scopre che le comete, quelle vere, sono pezzi di ghiaccio andati a male che girano a vuoto tra il buio delle galassie. A Natale pure le comete esplorate dagli scienziati non danno ali a nessuna fantasia, e sono imbrattate dal caos che avvolge i nostri giorni.
E senza presepe
Non ci piacciono più le stelle comete, e non ci piace più neanche il presepe. Il Natale è oggetto degli interdetti del politicamente corretto. E quel «Te piace ‘o Presepio?» di eduardiana memoria, suona oggi quasi come una domanda senza senso. La stella cometa, l’arcangelo Gabriele, i Re Magi, il pastore delle meraviglie. Le strine. Forse tra poco non sapremo più neanche cosa significano. Come nella commedia di Eduardo, Nennillo tace, si risente e alla fine sbotta: «No!».
Pure la moglie Concetta ha da ridire sul presepe; dopo aver mandato “a quel paese” il presepio nel silenzio della primissima scena, Concetta punzecchia ripetutamente Luca: «Non capisco che lo fai a fare»; «pare che stai facendo la Cupola di San Pietro! Ma vuttace quattro pastori: Vedete se è possibile che un uomo alla sua età si mette a fare il presepio. S’juta pe’ le dicere:-Ma che ‘o ffaie a fa’?-Sapete che mi ha risposto: -O faccio pe’ me, ci voglio scherzare io!-». Eppure Marcel Mauss ha scritto suo tempo che «l’uomo è stato capace di costruire il proprio spirito con tutti i mezzi». E le stelle e il cielo di Natale sono ancora lì, se guardassimo meglio.