Mille giorni a Ferramonti

Lara Chiellino a teatro con la storia di Nina Weksler nel campo di internamento di Tarsia. Regia di Dora Ricca

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Quando, subito dopo la guerra, in una Germania sconfitta e divisa, Nina Weksler provò a far pubblicare il libro sulla sua personale esperienza di internata nel grande campo di internamento fascista di Ferramonti, si scontrò con il secco rifiuto del mondo dell’editoria tedesca perché, molto banalmente, il punto di vista delle case editrici era che nel lager di Tarsia non era successo niente, nessuno era stato ucciso o torturato, tutto era a dimensione umana.
Ferramonti non era Dachau, Buchenwald, Bergen Belsen e tanto meno Auschwitz, niente a che vedere con quanto succedeva nei campi di sterminio e di lavori forzati dell’Europa centro-orientale.

Il campo di internamento di Ferramonti

Mille giorni a Ferramonti 

I mille giorni d’internamento di questa giovane donna ebrea non apparivano editorialmente seducenti, come se limitare la libertà delle persone, non fosse già, di per sé, un insulto a tutta l’umanità. Solo nel 1992, grazie alla casa editrice cosentina Progetto 2000, diretta da Demetrio Guzzardi, quei mille giorni raccontati da Nina diventano un libro, ripubblicato nuovamente nel 2020 per una seconda edizione.

Il libro dal titolo Con la gente di Ferramonti. Mille giorni di una giovane ebrea in un campo di concentramento, per volontà dello stesso Demetrio Guzzardi, è diventato uno spettacolo teatrale dal titolo Nina. Guten Morgen Ferramonti, presentato in anteprima nazionale al Salone Internazionale del libro di Torino nel maggio scorso, nello stand della Regione Calabria. Dora Ricca ha curato la scrittura drammaturgica e la regia, riuscendo ad adattare il testo, con tutta la sua moltitudine di dettagli e la complessità di emozioni, nello spazio e nel tempo della messa in scena.

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Lara Chiellino in “Nina, Guten morgen Ferramonti”

Lara Chiellino diventa Nina Weksler

Ricca è riuscita a restituire sentimenti individuali di un dramma generale, ma anche immagini paesaggistiche, poesia e malinconia, gesti e parole, di quanti hanno sùbito la più violenta e cieca persecuzione della storia. Il racconto del popolo ebraico parla anche di un pezzo di Calabria, di una zona malarica divenuta, per la sua condizione di isolamento geografico, una salvifica Arca di Noè, grazie alla quale, migliaia di persone hanno trovato la possibilità di sopravvivere al genocidio messo in atto dalla furia nazifascista, intenzionata a realizzare la follia di quegli ideali di pulizia etnica, razziale e politica.

Lara Chiellino ha interpretato la protagonista Nina; un lungo monologo in prima persona il quale, attraverso digressioni che hanno consentito di andare avanti e indietro nel tempo del ricordo, ha saputo raccontare la moltitudine umana dei tanti internati, portatori di culture, lingue, religioni e costumi diversi. Il peso della storia è raccontato come un esercizio di equilibrio e di resistenza al dolore, la semplicità della gente di Calabria diventa elemento di somiglianza, quindi sentimento di empatia, da condividere con quel popolo perseguitato da secoli.

Illustrazione tratta dal libro “Con la gente di Ferramonti. Mille giorni di una giovane ebrea in un campo di concentramento” (edizioni Progetto 2000)

Da Leningrado a Ferramonti, storia di Nina

Nina, nata a Leningrado da genitori ebrei, si era trasferita con tutta la famiglia a Berlino dopo la rivoluzione bolscevica, a causa della guerra perde i contatti con la sua famiglia e, arrestata dalla polizia fascista a Milano, arriva a Ferramonti di Tarsia, il luogo in cui ha potuto imparare a guardare in faccia l’anima stessa delle persone, il loro comportamento e le relazioni umane, una università di vita in cui nulla è stato facile. Ricca ha portato in scena, grazie all’interpretazione di Lara Chiellino, una donna libera e indomita che, nonostante la sua condizione di internata, non ha consentito a nessuno di annientarla sul piano umano.

Proprio per questo, Nina, nei suoi mille giorni di prigionia, fatti di fame, freddo e malattia, ha continuato a coltivare la sua personale passione per la scrittura, ad apprezzare i libri, le albe calabresi, ma anche i profumi, in quelle piccole boccette di vetro ormai difficili da trovare. Quei profumi, quasi dotati di vita propria, nella loro capacità di apparire chiari, scuri, tristi e allegri, si presentano quasi come una metafora dell’esistenza.
Sono sempre le piccole azioni, i piccoli gesti, come quello di indossare una vestaglia, sistemare un cappotto sgualcito, rammendare un calzino, avvolgersi in una coperta, il movimento convulso nel letto cercando disperatamente di addormentarsi, le candele accese, a definire la tragicità della condizione umana.

Lara Chiellino e Dora Ricca

La regia attenta di Dora Ricca

La regia di Dora Ricca punta a mettere in scena delle azioni, ma anche gestualità, ritmo e sonorità; il corpo di Lara Chiellino diventa la costante fluttuante tra un dentro e un fuori, tra interiorità ed esteriorità. Azioni che parlano, divenendo, allo stesso tempo, enunciati performativi, frasi che accompagnando movenze producono un nuovo stato di cose, una nuova realtà. Parole e azioni che portano con sé, grazie alla forza dell’autoreferenzialità, il potere di trasformare la percezione di un universo delimitato da un filo spinato.
La Chiellino riesce, attraverso il suo sguardo e i suoi silenzi, a mostrare le espressioni degli altri internati, si riesce a far percepire la presenza di prigionieri in realtà assenti sulla scena, quasi come se il suo stesso sguardo divenisse lo specchio delle paure e delle trepidazioni di tutte le persone segregate e non solo a Ferramonti.

Baracca 62

Lara agisce in uno spazio definito dalla quarta parete, pochi oggetti di scena riescono ad evocare il senso di miseria, solitudine, freddo e sofferenza che si viveva nella baracca numero 62 così come in tutte le altre. Lo spettatore assiste allo sviluppo di una vicende in cui, i ricordi e gli incubi ricorrenti di Nina, accompagnati dalla sua stessa voce fuori campo, lo spingono ad interrogarsi sulla tragedia che sappiamo nascere sempre dalla perdita di Dio o dal sentimento di umanità. Dio non era ad Auschwitz, non era neanche in tutti gli altri campi di lavoro e di sterminio, sicuramente, anche se nascosto, era nel cuore di Nina che, indossato il suo tallit, assisteva alla preghiera del venerdì sera senza capire troppo il senso delle parole e, forse, non era neanche necessario capire, bastava la poetica delle parole stesse per sentire vicino una presenza sacra.

Soldati all’esterno del campo

Dove era Dio?

Ricordava benissimo di un Dio implorato e pregato da sua madre nel giorno del Kippur, ma in quei racconti non rammentava un Dio iracondo, quanto un padre benevolo verso i suoi figli. Ma Dio ora forse era assente e per questo bisognava invocarlo, ma la tragedia intanto si stava consumando.
Il suono del violoncello, i ronzii delle mosche, il rumore degli aerei diventano voce drammaturgica in grado di costruire immagini concrete, di una realtà interrotta solo quando la quarta parete si infrange. Lara Chiellino, spogliandosi dei panni di Nina e indossando i suoi, irrompe sulla scena, a quel punto non è più personaggio, ma un’attrice che narra quella storia che ha riguardato ognuno di noi, il nostro passato collettivo e, proprio per questo, parla del valore della memoria e soprattutto dell’umanità che non ha memoria, diversamente non si spiegherebbero le guerre e le persecuzioni alla quali assistiamo ancora oggi. Le ceneri dell’umanità non hanno insegnato nulla e rivolgendosi al pubblico, attraverso un dialogo diretto, lo costringe a prendere delle posizioni davanti alla crudeltà della storia e degli uomini.

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