L’albero, gli uomini e il sacro: la Pita e il simbolo della rinascita

Ad Alessandria del Carretto, nel cuore profondo del Pollino, ogni primavera si rinnova il rito che lega la natura, il senso religioso e la gente. E' la Festa della Pita, un atto di resistenza culturale

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Nel cuore del Pollino, dove il vento trasporta echi di un passato remoto, sorge Alessandria del Carretto, un paese sospeso a mille metri d’altezza, al confine tra Calabria e Basilicata. Qui, ogni primavera, si rinnova un rito che trascende la celebrazione: la Festa della Pitë, un’antica tradizione arborea che intreccia la comunità al suo patrono, Sant’Alessandro, e alla natura circostante. Per oltre tre decenni, ho documentato questo evento come documentarista, con la macchina da presa come strumento di osservazione e dialogo. Il risultato è stato L’Albero, il Santo e i Dimenticati, un film realizzato insieme ad Agostino Conforti che rende omaggio a Vittorio De Seta e alla resistenza di un paese che, nonostante lo spopolamento, si riunisce attorno a un albero per riaffermare la propria identità. Questo scritto esplora il significato della Pitë, il suo contesto storico e sociale, e il processo creativo dietro il film, offrendo uno sguardo sulla memoria di una comunità al confine tra tradizione e oblio.

Uno scorcio dei Alessandria del Carretto

Un paese al confine dell’oblio

La mia prima visita ad Alessandria del Carretto risale ai primi anni ‘90, quando, giovane studente di Storia tradizioni popolari, fui attratto dai riti arborei del Mediterraneo. Il nome del paese, isolato sulle pendici del Pollino, evocava un’eco di pratiche arcaiche. All’epoca, Alessandria era già segnata dall’emigrazione, con i vicoli deserti e le case abbandonate, un’immagine che richiamava I Dimenticati (1959) di Vittorio De Seta. Quel cortometraggio, scoperto in una sala polverosa, non era solo un documento etnografico, ma una denuncia poetica dell’isolamento del Sud rurale, dove la Festa dell’Abete rappresentava un raro momento di coesione. Ispirato da De Seta, scelsi Alessandria del Carretto come mio laboratorio etnografico, deciso a comprendere cosa spingesse una comunità demograficamente impoverita a perpetuare un rito tanto complesso. Negli anni, ho assistito a un paese in trasformazione. Se nel 1959 l’isolamento era fisico, privo di una strada, oggi è demografico e culturale. La popolazione si è ridotta a poche centinaia di anime, ma ogni ultima domenica di aprile si rianima. La Pitë, un abete bianco scelto nei boschi di Terranova del Pollino, diventa il fulcro di un rito che riunisce residenti, emigrati e, sempre più, visitatori esterni. Questo evento non è solo una festa, ma un atto di resistenza culturale contro l’omologazione e l’oblio.

La Pitë: un rito di unione e rinascita

La Festa della Pitë è un rito collettivo che si svolge tra l’ultima domenica di aprile e il 3 maggio, giorno di Sant’Alessandro. Il rito si articola in fasi distinte, ciascuna densa di significato simbolico. Il primo atto è la selezione dell’albero: un abete bianco, alto e diritto, offerto dalla comunità di Terranova del Pollino in un gesto di solidarietà montana. Il taglio, eseguito dai “mastri d’ascia” con gesti rituali, è accompagnato da zampogne e organetti, in un’atmosfera di sacralità. Segue il trasporto, un’impresa epica in cui il tronco, lungo circa venti metri, e la cima dell’abete sono trascinati a braccia attraverso sentieri impervi. Uomini di ogni età, guidati da un “comandante” che impartisce ordini dal tronco, si coordinano con una sincronia quasi coreografica.

Dalla fatica alla festa: i canti, i balli, i banchetti

Lungo il percorso, banchetti, canti e balli trasformano la fatica in festa, rafforzando cosi il senso di comunità. Il culmine arriva il 3 maggio in piazza San Vincenzo, dove il tronco e la  cima vengono ricongiunti in un “matrimonio” simbolico. La cima, adornata con prodotti locali, oscilla al ritmo della musica, mentre uno zampognaro suona tra i rami. Con funi di prugno selvatico e uno sforzo collettivo, la Pitë viene innalzata, qualcuno preferisce “eretta”, diventando un albero della cuccagna. I più audaci si arrampicano per conquistare i premi appesi, in un gesto che richiama antichi riti di passaggio. Ricordo tanti giovani degli anni Novanta, che scalavano l’albero tra gli applausi, incarnando l’unione tra uomo e natura.

La Pitë non è solo un evento “folkloristico”, ma un rito di rinascita con radici in culti forse pagani, come quelli di Attis e Cibele, dove l’albero simboleggia morte e resurrezione. È anche un atto di coesione sociale: in un contesto di spopolamento, il rito riafferma l’appartenenza, richiamando gli emigrati e integrando i visitatori, oggi indispensabili per la sua realizzazione.

Trent’anni di cambiamenti

In tre decenni, Alessandria del Carretto si è trasformata. La popolazione è drasticamente diminuita, e il paese appare sempre più un guscio vuoto. Tuttavia, la Pitë si evolve, riflettendo nuove dinamiche sociali. Un tempo prerogativa maschile, il rito vede oggi la partecipazione attiva delle donne, che trasportano, cantano e, in alcuni casi, scalano l’albero. I visitatori, un tempo estranei, sono ora accolti come parte integrante, un segno di apertura dettato anche dalla necessità. Questi cambiamenti non indeboliscono il rito, ma ne testimoniano la vitalità, capace di adattarsi senza perdere la propria essenza.

Come documentarista, ho cercato di decifrare il significato profondo della Pitë. Credo che il rito incarni un duplice scopo: celebrare il ciclo primaverile della natura e riaffermare l’identità di una comunità minacciata dall’oblio. In un mondo globalizzato, Alessandria del Carretto si aggrappa alla Pitë come a un ancoraggio culturale, un momento in cui il paese si riscopre vivo e unito.

Il film: un dialogo con De Seta

Dopo anni di osservazioni e riprese, ho sentito l’esigenza di sintetizzare questa esperienza in un lavoro cinematografico di osservazione che oggi voglio condividere con voi lettori de I calabresi. L’Albero, il Santo e i Dimenticati è un documentario che rende omaggio a Vittorio De Seta, ma con uno sguardo contemporaneo. Come De Seta, ho adottato un approccio di “cinema di osservazione”, privilegiando le immagini e i suoni del rito – il crepitio dell’abete, le zampogne, le grida della folla – senza commenti didascalici. Il film alterna sequenze del rito (taglio, trasporto, innalzamento) ai volti degli anziani, che narrano storie di emigrazione, e ai giovani, che tornano per scalare la Pitë.

Se De Seta denunciava l’isolamento fisico di questo paese, io ho voluto esplorare un isolamento più sottile, demografico e culturale. Nonostante la strada abbia raggiunto Alessandria del Carretto, il paese rimane “dimenticato” in un Sud che fatica a trattenere i suoi abitanti. Eppure, la Pitë rimane un faro, un momento di riscatto collettivo. Nel film, ho cercato di preservare la memoria del rito, rendendo omaggio alla bellezza e alla durezza di Alessandria.

Un futuro sospeso

Oggi, Alessandria del Carretto è più vuota che mai, ma la Pitë continua a essere celebrata, un atto di ostinazione che sfida le previsioni. Mi chiedo quanto potrà durare questo miracolo. La comunità si assottiglia, ma il rito sembra dotato di una forza autonoma, capace di richiamare anche chi vive lontano. Come l’abete, abbattuto e poi “risorto” nella festa successiva, Alessandria potrebbe trovare il modo di rigenerarsi.

Un documentario che è un testamento etnografico

L’albero, il santo e i dimenticati, non è solo un film, ma un testamento etnografico. È il mio tentativo di preservare la memoria di un rito e di un paese che, come ammoniva De Seta, rischia di svanire. Spero che questo lavoro possa trasmettere il richiamo del Pollino, il profumo dell’abete e il calore di una comunità che, attorno a un albero, continua a resistere.

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