La pasta e patate “ara tijeddra” di Napoleone

I cosentini pensano che sia un loro piatto tipico. Probabilmente è stato introdotto dai soldati francesi. E c'è stato un tempo in cui il tubero era considerato un alimento velenoso

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I calabresi sono orgogliosi che in questi giorni le patate della Sila vengano pubblicizzate nelle grandi reti televisive. Alcuni esperti di cucina ritengono che gli abitanti della regione siano talmente attaccati alle proprie abitudini da aver mantenuto intatte per secoli le tradizioni culinarie. In un recente manuale sulla gastronomia regionale si legge che le pietanze, composte da pochi prodotti semplici, nonostante il trascorrere del tempo sono rimaste sempre le stesse: in Calabria tutto quel che è antico è attuale. In realtà molti alimenti alla base della cucina calabrese fanno parte di una storia recente, frutto di un lento e difficile rapporto di assimilazione.

Le patate della Sila durante il tempo della raccolta

Un pericolo per corpo e anima

Resistenze e cautele vi furono nei confronti dei prodotti portati dagli spagnoli dopo la scoperta delle Americhe. Chierici come José de Acosta sostenevano che le piante introdotte dalle Indie in Spagna fossero poche e riuscissero male, mentre quelle che dalla Spagna erano state esportate in India fossero numerose e riuscissero bene. Consumati da popolazioni selvagge che non conoscevano la parola di Dio, quei cibi erano pericolosi per corpo e anima: soprattutto il peperoncino a cornetto, per la natura «calda, fumosa e penetrativa», stimolava la sensualidad, pregiudicando la moralità dei giovani.

Cibo? No, piante ornamentali

I botanici erano ostili alle piante straniere perché pensavano che un alimento, salubre in alcuni climi e insalubre in altri, potesse provocare gravi malattie come la lebbra. Patate, mais, topinambur, pomodori e peperoncini erano buoni solo come piante ornamentali e, nei trattati sull’arte dell’ortolano, non erano presi neanche in considerazione. Gli studiosi, in realtà, conoscevano poco le nuove piante, di alcune ignoravano la provenienza e facevano una gran confusione persino sui nomi. Nel 1792, Gilli e Xuarez notavano che la descrizione del peperoncino era così scarsa e imprecisa che probabilmente molti, tra cui lo stesso Linneo, non avessero mai visto la pianta e «per mera notizia data da altrui l’avevano descritta».

La mela insana

Alcuni osservavano che i «pomi d’oro», una volta maturi, erano di un rosso intenso e che con tale nome erano conosciuti arance, cedri, limoni e altri agrumi che per il colore giallo somigliavano all’oro. Il pomodoro era chiamato anche «mela insana» e «mela aurea» e, in alcune zone, come ci informa un cuoco maceratese, «melanzana». Tozzetti, autore di un libro sulla storia delle piante forestiere introdotte nell’agricoltura, confermava che gli storici avevano pareri diversi sulla loro provenienza. Taluni, ad esempio, sostenevano che i peperoni fossero presenti già nell’Impero romano mentre altri affermavano che erano stati portati dalle Indie orientali in America e da qui introdotti in Europa.

Patata, il nemico numero uno

Tra i prodotti “americani” fu la patata a incontrare maggiore ostilità, probabilmente perché tra le molte specie esistenti se ne annoveravano alcune velenose. Nel 1767, Zanon lamentava che, quantunque da decenni in molte nazioni europee se ne facesse largo uso, in Italia i «pomi di terra» erano noti solo ai botanici. Fra gli agricoltori era diffusa la convinzione che le patate avvelenassero i terreni, facessero deperire le piante, contribuissero a far crollare il prezzo dei cereali e provocassero seri danni alla salute di uomini e animali.

Una inconcepibile stravaganza

Le patate più nocive erano quelle coltivate nei paesi caldi e nei trattati sui veleni si accenna a persone morte dopo averne mangiato un piatto. I pomi di terra erano diabolici perché cagionavano malattie gravi come la «lepra» e i proprietari si opponevano con «indicibile ostinazione» alla loro produzione. Uno studioso scriveva sconsolato che indifferenza, ostinatezza e ignoranza di molti possidenti facevano sì che la coltivazione del tubero fosse vista come una prova di «inconcepibile stravaganza e come un delirio dello spirito umano» e, dovunque, le patate erano «riguardate come un prodotto di giardinaggio».

Un cibo per ricchi

In molti, tuttavia, cominciarono ad apprezzare le qualità dei pomi di terra indicandoli come un dono del cielo: erano facili da coltivare, avevano un sapore squisito e si preparavano facilmente lessandoli in acqua o cuocendoli nella brace. A chi sosteneva che provocassero pericolose malattie, gli studiosi facevano notare che in diversi paesi europei le popolazioni che si nutrivano di tale tubero crescevano sane e robuste.

Sembrava ovvio che mangiarle ogni giorno le rendesse indigeste, ma ciò sarebbe accaduto con l’uso di qualsiasi altro alimento. Era falsa anche la diceria secondo cui le patate, cibo buono per i maiali, fossero utilizzate dai governi per sfamare i poveri. In realtà erano presenti sulle tavole dei ricchi e i cuochi le preparavano in vari modi: cotte sotto la cenere o in tegame con butirro fresco; stufate con formaggio, cipolla, aceto ed erbe odorose; bollite, pelate e condite con olio e aceto; tagliate a fette e fritte con il lardo nell’olio o nello strutto.

La Calabria scopre la patata

Alla fine del Settecento le patate in Calabria erano coltivate solo da alcuni curiosi. Galanti scriveva che a Cosenza erano sconosciute, a Castrovillari se ne ignorava persino il nome mentre nel Crotonese alcuni possidenti avevano cominciato a piantarle, ma non fu possibile dar loro «voga» per una certa avversione degli abitanti. Swinburne racconta che un giorno cucinò patate in vari modi per i frati minimi del convento di Monteleone, ma questi, dopo il primo boccone, le rifiutarono ritenendole insipide e disgustose e ne mangiarono un po’ ricoperte con burro misto a una salsa di aglio e pepe della Giamaica. Alcuni studiosi sostenevano che uno dei motivi della resistenza dei campagnoli nei confronti delle patate fosse legato alla convinzione che i governanti, «per difetto di migliore alimento», volessero imporre quei tuberi che si davano ai maiali.

La tijeddra di Napoleone

Furono i funzionari del governo napoleonico a incoraggiare la coltivazione delle patate in Sila. I soldati avevano contatti con gli abitanti e finivano per influenzarne i costumi. Gli ufficiali partecipavano alle feste organizzate dalle ricche famiglie cosentine e il valzer rimpiazzò i balli locali; nelle locande cittadine, gli osti preparavano vivande con ricette francesi e probabilmente la pasta e patate ara tijeddra, ancora oggi un piatto amato dai cosentini, fu introdotto dai soldati napoleonici.

Napoleone nel dipinto di Jacques Louis David

Un premio ai coltivatori

Nel 1812 la Società economica della Calabria Citeriore stabilì un premio per chi le seminava e Cosentini, grande proprietario terriero, le coltivò per circa tre anni con eccellenti risultati. Si trattava soprattutto di patate bianche dai bulbi tondeggianti, poiché quelle gialle, rosse e lunghe, anche se più «saporose», non vegetavano dappertutto e rendevano meno. In un opuscolo Silvagni incoraggiava i coloni a seguire l’esempio di Cosentini e consigliava di cuocerle mettendole sotto la brace, al forno o in acqua bollente, toglierle sino a che cedevano alla pressione di un dito e poi raffreddarle, levare la buccia, tagliarle a fette e insaporire con olio, sale e burro.

Il commercio della patata

Nel tempo, proprietari terrieri e contadini mutarono il proprio atteggiamento e gli studiosi notarono che le patate erano apprezzate soprattutto dai giovani, che le preferivano a fagioli e mais. Nel 1845, Grimaldi scriveva che in Calabria la coltivazione delle patate si andava «giornalmente estendendo» e che erano ormai nella maggior parte dei paesi si seminavano in maniera costante. Tre anni dopo, Raso annotava che da intingolo erano diventate oggetto di proficuo commercio e, cucinate in vari modi, erano sempre presenti sulle tavole dei contadini.

Le patate della Sila sfondano

Qualche anno dopo Pugliese scriveva che le patate, prima aborrite perché ritenute velenose e indigeste, si mangiavano con piacere ed erano particolarmente ricercate dai contadini che le acquistavano dai mulattieri di Bocchigliero e San Giovanni in Fiore dove erano coltivate in maniera intensiva. Nella seconda metà dell’Ottocento, le patate erano seminate non solo nei territori di montagna ma anche in quelli collinari e pianeggianti. Pur se prodotte in grandi quantità, non coprivano comunque il consumo interno e gli stessi agricoltori, spesso erano costretti ad acquistarle poiché facilmente deperibili. Come i cereali, si conservavano in grandi cisterne di muratura costruite in aperta campagna, coperte da strati di paglia e felci contro l’umidità, ma i risultati non erano incoraggianti.

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