La fiera di San Giuseppe si è conclusa da qualche giorno e ha lasciato un diffuso senso di delusione. In qualche maniera le aspettative tradite sono sempre legate ai nostri ricordi, alla memoria di una fiera che era molto più che un vasto mercato, era un luogo di incontro e scambio. Da bambino, quando facevano capolino le prime belle giornate di primavera, quando la primavera esisteva, cominciavo a convincere i miei genitori di accompagnarmi alla fiera di San Giuseppe, a Cosenza. Mi entusiasmava concedermi alla folla, all’assiepamento talvolta asfissiante di gente proveniente da ogni paese della provincia, e non soltanto. Ogni anno nei giorni che precedono e seguono il 19 marzo si rinnovava l’appuntamento con l’antichissima fiera.
Una parte della città diventa la Kasbah
«Ara Fera», l’espressione del dialetto cosentino molto utilizzata nei giorni dell’evento; in italiano diventa «in/alla fiera». Un caleidoscopio di razze, suoni, colori che invade la città dei Bruzi che si trasforma a volte in una kasbah nordafricana. Mi è sempre piaciuta tanto la fiera che, da grande, ho voluto girare alcune sequenze per costruire due brevi documentari di osservazione. La fiera rappresenta una delle tradizioni più antiche e sentite. Un evento calendarizzato che intreccia riti, stagioni e dinamiche commerciali ed economiche popolari. Le sue origini arrivano dal passato medievale, quando la celebrazione del santo artigiano, simbolo di lavoro e famiglia, venne associata al mercato locale.
La fiera e l’arrivo della primavera: l’auspicio della rinascita
La fiera si colloca in un tempo cruciale del calendario: l’arrivo della primavera, solitamente carica di simbolismo, che segna il risveglio della natura dopo la quiete invernale, ma anche il senso di rinascita e speranza per le comunità rurali e urbane. In diverse culture, il passaggio stagionale è celebrato con feste, mercati e riti che affermano il ciclo della vita e della fertilità. La fiera non fa eccezione. I colori, i profumi delle primizie esposte e il fervore umano che anima le strade riecheggiano tutto quel “rinnovamento” che la primavera porta con sé. Nel contesto agricolo e pastorale del Sud, la primavera è stata tradizionalmente un momento per riorganizzare il lavoro nei campi e pianificare le semine. La fiera, in quest’ottica, diventava non solo un’occasione per celebrare, ma anche per scambiare beni e idee, stabilendo legami tra i produttori locali e il tessuto urbano.
Oltre al potere simbolico c’era anche l’importanza degli scambi commerciali
Oltre al suo significato simbolico e stagionale, la fiera era anche un evento commerciale di grande rilevanza. Rappresentava un’opportunità per contadini, artigiani e commercianti di vendere i propri prodotti e acquistare beni necessari per l’anno successivo. Gli scambi economici sono stati un riflesso delle tradizioni locali, con la presenza di prodotti come formaggi, vino, attrezzi agricoli e manufatti in legno. Oggi, la fiera si è evoluta, (o involuta, dipende dai punti di vista) mantenendo in qualche modo viva la sua anima storica ma adattandosi ad alcune dinamiche contemporanee. Bancarelle che un tempo esponevano esclusivamente prodotti locali ora offrono una varietà di merci, dalla moda agli accessori, attirando visitatori non solo da Cosenza, ma da tutta la regione e oltre.

Tutto cambia e anche la fiera di San Giuseppe
La fiera di San Giuseppe è un esempio emblematico di come una tradizione possa adattarsi ai tempi, mantenendo la sua trama identitaria. Il suo fascino risiede nella capacità di coniugare il profondo legame con il ciclo delle stagioni, il risveglio della natura e la convivialità umana con le esigenze moderne di commercio e socializzazione. È una celebrazione della comunità, della vita e dell’energia rinnovatrice che la primavera porta con sé.

Mostaccioli antropomorfi di Soriano: uno sguardo etnografico sulla tradizione e la resistenza culturale
Ma la fiera di San Giuseppe a Cosenza è, per me, la fiera dei mostaccioli di Soriano che rappresentano un solenne intreccio tra arte, cultura alimentare ed etnologia, incarnando un simbolismo che travalica i confini del piacere per il cibo, per immergersi nelle dinamiche di identità collettiva e memoria storica. Questi dolci dalle figure antropomorfe, unici nel loro genere, si stagliano come pilastri attraversando i secoli come testimoni viventi di una tradizione longeva. La produzione dei mostaccioli di Soriano si radica in antiche pratiche artigiane legate alla panificazione rituale.


La loro forma antropomorfa non è casuale: richiama figure mitiche e sacre, eroi e personaggi del folklore, con una profonda valenza simbolica. Rappresentano, secondo un’ottica antropologica, un modo attraverso il quale la comunità celebra le sue radici e rinnova il legame di appartenenza e continuità.
I dolci offerti come doni e offerte votive

I mostaccioli sono stati usati nei secoli come offerte votive o doni simbolici durante feste religiose e le cerimonia matrimoniali, fungendo da collante tra sacro e profano. Le mani che hanno plasmato queste figure, prima dei processi più moderni e industriali, imprimevano in questo elemento non solo abilità tecnica, ma anche narrazioni tramandate da generazione in generazione. Nel contesto della fiera i mostaccioli sopravvivono come testimonianza di longevità, sopravvivono all’omologazione dei gusti e del “mangiare veloce”, alle altre pressioni della globalizzazione. In questa resistenza possiamo lo spirito di comunità che, attraverso il cibo, si riflette nella capacità di adattarsi senza perdere autenticità. Ogni figura antropomorfa porta con sé non solo un pezzo di storia, ma anche una sfida: restare importanti e rilevanti in un mondo che cambia. I mostaccioli di Soriano, in fiera, ci raccontano molto di più rispetto al loro essere dolciaria. Ci raccontano che sono artefatti culturali in grado di raccontare storie, rafforzare legami e mantenere viva l’eredità e il patrimonio culturale collettivo.