C’è un piccolo enigma che riguarda l’Archivio di Stato di Cosenza, dove è conservato l’archivio personale di Maria Pignatelli, moglie del principe Valerio Pignatelli di Cerchiara. Nelle carte della principessa c’è un faldone vuoto, che reca una scritta a dir poco bizzarra: Ok. Storia della resistenza fascista al Sud.
Questo faldone, stando anche alle memorie del marito di donna Maria, avrebbe dovuto contenere il diario di una missione speciale condotta dalla nobildonna calabrese nel territorio della Repubblica Sociale Italiana durante la primavera del ’44. Ma quel diario non si trova più.
Un’avventura particolare, quella vissuta dalla principessa, che fu protagonista di intrighi e doppi giochi, tra i fascisti – clandestini al Sud e ancora istituzionali al Nord – i servizi segreti di tutte le parti in causa e ciò che restava della monarchia in quell’ultimo, tragico scorcio della guerra.
L’epicentro di questa vicenda, emersa solo di recente grazie all’importante scavo dello storico Giuseppe Parlato, è calabrese. Perché calabresi sono i protagonisti principali e perché i fatti più salienti si sono svolti in Calabria.
Prima della fine
È calabrese d’origine Carlo Scorza (era nato a Paola, dove aveva vissuto fino a 15 anni, prima di trasferirsi a Lucca) l’ultimo segretario del Partito nazionale fascista. È calabrese di adozione Francesco Maria Barracu, nato in Sardegna ma diventato federale di Catanzaro dopo la guerra d’Etiopia e lì rimasto fino all’armistizio. Poi sarebbe andato a Roma e quindi avrebbe seguito Mussolini a Salò.
Nella tarda primavera del ’43 le truppe dell’Asse avevano perso l’Africa settentrionale e lo sbarco alleato al Sud era imminente.
Alfredo Cucco, il ras fascista della Sicilia, lanciò l’allarme, Sforza lo raccolse e formulò una proposta a Mussolini: organizzare una rete di resistenza fascista che ostacolasse l’avanzata delle truppe alleate. Il duce approvò e coniò il nome di quest’organizzazione: Guardia ai labari. E incaricò Barracu, suo uomo di fiducia, di darsi da fare.
Quest’ultimo, assieme a Scorza, individuò l’uomo adatto per creare e gestire la rete “nera”, che può essere considerata la prima organizzazione neofascista italiana: Valerio Pignatelli.
Una coppia pericolosa
Il principe Valerio Pignatelli è un personaggio inquieto, che sembra uscito da un romanzo di Dumas padre. Militare dalla carriera intensa ma irregolare, esordì nella guerra di Libia come tenente di cavalleria. Inoltre, partecipò alla Prima Guerra Mondiale come capitano degli Arditi. Poi, a ostilità finite, divenne addetto militare dell’Ambasciata italiana in Ungheria. Fu una piccola pausa, per il principe, che proprio non poteva fare a meno di menare le mani. Infatti, nel 1920 si arruolò nell’Armata bianca di Vrangel per combattere quella rossa di Trockij.
Raggiunse il massimo di questa bizzarra carriera in Messico, dove riuscì a farsi incoronare imperatore di una piccola regione del sud del Paese. Ma durò in carica solo dieci giorni: il tempo di scappare negli Usa e di sposare Patricia Hearst, una ricca ereditiera.
Anche il matrimonio durò poco: rientrato in Italia, il principe si iscrisse al Pnf. Ma l’adesione al fascismo non gli inculcò alcuna disciplina a Pignatelli, che riuscì a sfidare a duello (e a ferirlo) nientemeno che l’ex segretario Roberto Farinacci.
Prima della Seconda Guerra Mondiale, l’indomito aristocratico partecipò alla guerra d’Etiopia come comandante di un reparto di eritrei e a quella di Spagna. In entrambe, collezionò medaglie e ferite.
Non era da meno Maria Elia, nobildonna toscana, che prima di conoscere Valerio aveva sposato il marchese Giuseppe de Seta, da cui aveva avuto quattro figli, ed era diventata esponente di primo piano della nobiltà meridionale. Rimasta vedova, convolò in seconde nozze col principe di Cerchiara nel 1942.
Bombe in Calabria, la storia degli ottantotto
Nel dare il via libera alla rete nera, Mussolini raccomandò prudenza estrema. I suoi fedelissimi non avrebbero dovuto scatenare una guerra civile, ma solo dar fastidio agli occupanti, fare propaganda e, ovviamente, fare le spie in accordo coi vertici del Sid, i servizi segreti di Salò e con la Gestapo.
Il regista dell’operazione era Barracu, nel frattempo diventato sottosegretario della Rsi. Valerio Pignatelli, intanto, si era trasferito a Napoli, in una villa di fronte alla Nunziatella, dove assieme alla moglie, intratteneva rapporti ambigui con gli alti gradi dell’Amgot, l’autorità di occupazione alleata nei territori del Sud, esponenti del fascismo e agenti del Sim, i servizi segreti del Regno d’Italia.
La rete calabrese è affidata a un altro personaggio importante nella storia del neofascismo: il cosentino Luigi Filosa, un fascista di ultrasinistra (oggi lo si direbbe un “fasciocomunista”), dal passato a dir poco burrascoso, dentro e fuori il regime.
L’organizzazione iniziò a darsi da fare a partire dall’autunno del ’43 con una serie di attentati dinamitardi (ben 18) nel Lametino, a danno di due tipografie, del Liceo di Nicastro, della casa del preside del Liceo, di una Caserma dei carabinieri e di altri obiettivi, più simbolici che sensibili.
Poi la Polizia arrestò due studenti di Catanzaro e ricostruì la rete. Filosa, vista la mala parata, andò a Bari per cercare di scappare al Nord. Ma venne arrestato il 14 maggio del ’44 e finì a processo con altri 87 imputati con l’accusa di associazione sovversiva. Fu il primo maxiprocesso del dopoguerra al Sud.
Poco prima di lui, il 27 aprile, erano finiti in manette i principi Pignatelli. Per loro, tuttavia, l’accusa era un’altra: spionaggio militare.
Lo strano viaggio della principessa
Facciamo un passo indietro e torniamo a Napoli. Mentre i fascisti calabresi si “esercitavano” con le bombe e raccoglievano armi con la complicità di non pochi militari, Pignatelli ricevette un ordine da Barracu: raggiungere Gargnano, sul lago di Garda, per conferire con lui e con Mussolini.
Pignatelli, per ottenere il lasciapassare per attraversare il fronte, “cercò una pastetta” al principe Umberto e allo scopo giocò una carta importante: l’amicizia tra sua moglie e Maria José di Savoia. Nulla da fare: i servizi segreti del Regno d’Italia, che tenevano d’occhio Pignatelli, non concessero il nulla osta.
Al principe restò solo una fiche: sua moglie. E la puntò bene. Perché anche la principessa aveva le sue amicizie. Tra queste, c’era il tenente di vascello Paolo Poletti, che faceva un doppio gioco spregiudicato tra la X-Mas di Junio Valerio Borghese e l’Oss, i servizi segreti americani, guidati da James Jesus Angleton, il futuro capo della Cia. Angleton era animato da un anticomunismo estremo, che lo portava a diffidare più degli alleati antifascisti che dei nemici fascisti. Ciò lascia pensare che il doppio gioco di Poletti non fosse ignorato (né disapprovato) né da lui né dai vertici di Salò. Il tenente italiano sarebbe stato quindi quel che oggi si direbbe un agente doppio.
L’incontro col feldmaresciallo
Poletti accompagnò donna Maria una prima volta a fine marzo ’44, assieme al capitano Nuvolari, agente del Sim anche lui legato all’Oss. Incapparono in un check point gestito dagli inglesi che rispedirono indietro la comitiva.
Il secondo tentativo, invece, riuscì: la principessa, stavolta, varcò il confine nei pressi di Lanciano a bordo di un’ambulanza della Croce Rossa e fu ricevuta sul monte Soratte dal feldmaresciallo Albert Kesserling per un colloquio, nel corso del quale la nobildonna avrebbe rivelato alcuni dati sensibili sulle strutture militari alleate del Sud.
Poi, la principessa andò a Roma, per incontrare due persone care: la figlia primogenita Bona de Seta e Vittoria Odinzova, una profuga della rivoluzione russa che era stata fidanzata con suo figlio Francesco, tenente di aviazione caduto nel 1941.
Il ruolo della Odinzova è tutt’altro che secondario in questa vicenda: detestata dai restanti tre figli della principessa, la bella russa era diventata la pupilla della nobildonna. Ma, soprattutto, Poletti aveva perso la testa per lei e, pur di averla, accettò di aiutare la nobildonna.
Nobili, doppiogiochisti e servizi segreti
Le stranezze non finiscono qui: i Pignatelli erano senz’altro fascistissimi. Non altrettanto i figli della principessa. Non lo era Vittorio de Seta, prigioniero dei tedeschi a Salisburgo. E non lo era suo fratello Emanuele, che faceva parte di una rete antifascista clandestina ed aveva subito i rigori delle Ss nella famigerata prigione romana di via Tasso.
Quanto a Bona, c’è da dire che era ospite della residenza capitolina di un’altra famiglia aristocratica calabrese: i baroni Marincola di San Floro.
Gerarca di Catanzaro e amicissimo del principe Valerio, Filippo Marincola aveva sposato Josephine Pomeroy, cittadina americana, antifascista e legata ai servizi segreti alleati. Non era da meno il cognato di don Filippo, Livingstone Pomeroy, che addirittura faceva parte dell’Oss ed era molto legato a Bona.
In pratica, la principessa si era cacciata nella tana del lupo: tre figli antifascisti o quasi, più amici non del tutto affidabili.
Dopo alcuni giorni, la principessa raggiunge Gragnano, dove ebbe il colloquio con Barracu e col duce. Cosa si siano detti non è facile da ricostruire, perché dai verbali degli interrogatori subiti dai Pignatelli emerge di tutto e di più.
Infine, il ritorno, assieme a Vittoria Odinzova. Al confine le attendevano Poletti assieme a un altro collega dell’Oss, tale Mathieu, di cui resta ignota la reale identità.
Non appena rientrò a Napoli, la principessa fu arrestata dalla polizia militare dell’Amgot. Assieme a lei finirono in galera la giovane russa, il principe Valerio e il tenente Poletti.
Gli strani processi
I quattro subirono interrogatori pesantissimi. La prima a uscire, praticamente scagionata, fu Vittoria Odinzova, considerata un’ingenua pedina nelle mani della principessa.
Prima di lei, tuttavia, uscì dalla vicenda Poletti. Nella maniera peggiore possibile: torturato dalla polizia militare inglese nella prigione di Santa Maria Capua Vetere, l’agente dell’Oss impazzì e fu rinchiuso in una cella da cui tentò di evadere.
Durante la fuga, Poletti, ancora ammanettato, aggredì due guardie, che lo uccisero.
Questa fu la versione ufficiale: in realtà, secondo alcuni storici lo sfortunato tenente fu liquidato dai suoi colleghi dell’Oss, i servizi segreti statunitensi che temevano le sue testimonianze nel processo. Già: britannici e americani giocavano due partite diverse. Antifascisti (e antiitaliani), i sudditi di Sua Maestà britannica avevano intenzioni “punitive” nei confronti dell’Italia. Anticomunisti e filoitaliani, gli statunitensi si preoccupavano di contenere l’avanzata del Pci al Sud nell’imminente dopoguerra.
Proprio su questa divergenza il principe Pignatelli giocò con grande abilità. Durante la sua deposizione rivelò che Barracu, Mussolini e Borghese stavano lavorando a una rete anticomunista che comprendeva i fascisti, alti gradi dell’Esercito rimasto fedele alla Corona e quella parte della resistenza (gli osovani, i monarchici della “Sogno” e parte di Giustizia e Libertà) che temeva l’egemonia dei partigiani “rossi” della divisione Garibaldi.
Tenuta in poca considerazione durante il processo, la rivelazione del principe è stata rivalutata in sede storica dai documenti che provano i continui contatti tra la Marina del Sud e i Servizi della Rsi e gli abboccamenti tra i partigiani osovani e i militi della X-Mas in chiave anticomunista. Ed è confermata dal salvataggio di Borghese operato da Angleton in persona.
Lo spauracchio “rosso” fu giocato anche dalla difesa degli ottantotto fascisti processati a Catanzaro.
Fine della storia
Cosa curiosa, nessuno riuscì a provare il collegamento tra i dinamitardi calabresi e Pignatelli. Quindi l’accusa di associazione sovversiva cadde. Per fortuna degli imputati, che altrimenti sarebbero finiti davanti al plotone di esecuzione.
Ciò non evitò condanne piuttosto pesanti alla maggior parte degli arrestati. Tuttavia, il processo fu annullato dalla Cassazione per vizi di forma. E rinviato a un’altra Corte. Ma non si celebrò mai, perché nel frattempo Togliatti amnistiò i fascisti.
Discorso simile per i Pignatelli, condannati entrambi a dodici anni di carcere. Ne scontarono a malapena uno e qualcosa.
Appena scarcerato, Valerio fondò il Movimento sociale italiano assieme agli ex camerati. Ma il suo carattere irrequieto ebbe il sopravvento per l’ennesima volta: litigò e si ritirò a vita privata. Scrisse romanzi e memorie e gestì i beni di famiglia fino al 1965, quando morì a Sellia Marina.
Maria lo raggiunse tre anni dopo, in seguito a un incidente stradale nei pressi di Cosenza.