Matteo Garrone con il suo Io Capitano, dopo la Mostra Internazionale del Cinema di Venezia è arrivato anche a Cosenza per la decima edizione del Festival della Primavera del Cinema Italiano. Durante la proiezione della pellicola è giunta la notizia che il film avrebbe rappresentato l’Italia nella corsa agli Oscar. Magari, dopo il Nastro d’argento per la miglior regia, il Premio Mastroianni come miglior attore al giovane Seydou Sarr e il Green Drop Award, Garrone riuscirà a portare a casa la quindicesima statuetta del cinema italiano, assegnata l’ultima volta, nel 2014, a Paolo Sorrentino per La Grande Bellezza.
Il viaggio
Il tema, privo di quegli elementi di retorica paternalistica difficili da digerire, è quello dei migranti, il viaggio di milioni di persone verso la speranza di una vita nuova; verso quel sogno europeo che tanto ricorda il grande sogno americano inseguito da milioni di persone del vecchio continente. Come allora, spesso, il mare si trasforma in luogo di morte, oppure i sogni si infrangono davanti alle coste italiane, proprio quando, sembra di poter toccare Lampedusa solo stendendo il braccio, proprio come succedeva a Ellis Island, quando molte delle persone sbarcate venivano rimandate indietro.
Seydou e Moussa sono cugini, vogliono raggiungere l’Europa partendo dal Senegal. Non fuggono dalla guerra e neanche dalla fame, vogliono solo partire, magari per fare successo e chi lo sa, un giorno firmare «autografi ai bianchi». L’Europa, per chi scappa dalla povertà, a causa del trattato di Schengen, operativo dagli anni novanta, è diventato un posto difficile da raggiungere, ce lo ricordano i continui naufragi e quello di Cutro è una ferita ancora aperta.
L’odissea di Seydou
Garrone racconta il viaggio dal punto di vista di chi parte, di chi non è un numero, ma ha un nome, una famiglia, un villaggio, un’identità.
Per raccontare i drammi dei migranti dovrebbero essere usati più nomi, più storie personali e meno numeri, questi ultimi non definiscono mai individui, ed è proprio questo a fare la differenza tra ciò che consideriamo emergenza politica e quella che in realtà dovrebbe essere trattata sempre e solo come emergenza umanitaria.
Seydou, il protagonista, è un ragazzo di sedici anni, uno come tanti che sogna la libertà di poter viaggiare; Garrone ha costruito il suo personaggio raccogliendo più storie, racconti di viaggi atroci in cui, ogni essere umano, diventa solo merce di scambio monetario e corpi sui quali accanirsi.
Seydou è un ragazzo ingenuo che, nel corso del viaggio, diventerà un uomo capace di conservare il suo lato umano nonostante la bestialità e la crudeltà degli altri uomini. Anche questo significa salvarsi, indipendentemente dal riuscire a raggiungere le coste europee. Il film di Garrone è un racconto a lieto fine, per questo ricorda la struttura della favola. Fiaba per la sua modalità di racconto in cui compaiono figure antropomorfe che accompagnano voli onirici per un ritorno alle proprie radici, al mito che ha sempre a che fare con quella lotta fra la vita e la morte, agli archetipi della propria cultura, inseparabili dal proprio inconscio.
Quasi un racconto-apologo che nelle sue allegorie persegue il fine pedagogico, quello di insegnare che il mondo è un posto pericoloso anche quando la comunicazione digitale racconta altro, una mistificazione che può trasformarsi in una trappola mortale. Lo stregone del villaggio e gli spiriti da interrogare prima di partire, fanno parte di quel mondo legato a una ritualità e ad un folklore di un universo non ancora contaminato totalmente dalle strutture del capitalismo, ma che, inevitabilmente, di questo subisce le conseguenze a causa di una marginalizzazione dovuta spesso ad uno sfruttamento economico indiscriminato.
Chagall nel deserto
La dimensione onirica di alcune scene sottolinea il rapporto con la fiaba, con il mondo sovrannaturale e con la sfera delle emozioni. Nel deserto, accanto ai tanti corpi senza vita, Seydou sogna di prendere per mano una donna ormai in fin di vita, stremata dalla fatica e di farla volare, sostituendo così la gioia e l’amore ad una forza di gravità che attira i corpi verso una terra che troppe volte si rivela matrigna. Un’immagine che ricorda La passeggiata di Marc Chagall, il dipinto in cui due personaggi si tengono per mano, mentre la donna è libera di volare, in un contesto felice e luminoso.
Di certo a Garrone non è sconosciuta la poetica del Fauvismo, il movimento pittorico nato in Francia agli inizi del ‘900, che esprimeva la sua poetica attraverso forme semplici e colori puri e vividi. Scene come pennellate pittoriche, colori che esprimono la forza dei corpi e delle emozioni e sogni che si aprono verso un mondo libero e immaginifico.
Il film girato in lingua wolof, parlata in Senegal, diventa un linguaggio universale, perché l’umanità per essere raccontata non ha bisogno di traduzioni. La scelta di Garrone, di sottotitolare e di non doppiare, si rivela vincente per raccontare il punto di vista di una cultura che, solitamente, è interpretata secondo riferimenti culturali occidentali, disperdendo così l’essenza di una realtà che andrebbe raccontata con i propri codici linguistici e identitari.
Una pellicola politica
Garrone, nelle varie interviste e nel suo intervento al cinema Citrigno, afferma che Io Capitano non è un film politico, ma solo un racconto, una storia che lui ha voluto narrare. Dal mio punto di vista, invece, il film è politico nella misura in cui tratta un tema complesso a cui la politica internazionale non riesce a dare risposte dignitose. Il suo essere politico è nella percezione che ne deriva dello stesso fenomeno, nella sua capacità di far scaturire un’ideologia in grado di parlare e determinarsi.
Per Hegel il motivo dell’arte è la coscienza dei bisogni, se questo è vero, e il film di Garrone può essere considerato sicuramente arte, le urgenze individuate nel suo racconto non possono che essere inserite in una dimensione storica che, collegata inevitabilmente alla storia del passato, cerca, per non rimanere nell’astrattezza, di risolvere ciò che per il momento rimane ancora irrisolto, investendo per questo sempre la sfera della percezione. Oltretutto è lo stesso Garrone a parlare di opera epica e questa è da intendere sempre come portatrice di necessità fortemente politiche. Alla base di un’opera epica c’è sempre un conflitto politico che, indubbiamente, si riversa anche in un tormento e in un processo di crescita interiore, ma che attraverso dei racconti di piccoli e grandi eroi, prendono corpo le avventure dei tanti Seydou, Moussa e di quanti attraversano il tempo della metastoria.