In questa regione gli uomini, quelli che comandano da sempre, in politica, nelle istituzioni, nella cultura, nelle imprese, si giudicano da quanto hanno saputo fare, dalle loro opere. Piuttosto pessime, a soppesare senza troppe illusioni la realtà che hanno costruito intorno a noi. Le donne invece dalla speranza che hanno saputo destare e che tengono viva in questa società che opprime e che ancora oggi non riesce ad amare la libertà, e spesso neanche a farsela amica.
Vecchi copioni
Come antropologo e narratore giro la Calabria in lungo e in largo da anni. Spesso per strada, arrivato in un posto, città o paese che sia, mi fermo solo per guardare le donne, le ragazze che senza saperlo sono lo spirito dei luoghi. Sono comunque la cosa più viva da queste parti. Questo è il tempo in cui le donne danzano. Gli uomini, invece, trascinano i passi, ovunque. Recitano vecchi copioni, arrancano, talvolta distruggono e si autodistruggono. Li sostiene una tradizione misogina, quel patriarcato secolare eredità di un lungo medioevo sessista: A fimmana ndavi i capiji longhi e ra menti curta; A fimmana è cumu a crapa, mangia a centu erbi e non è mai cuntenta; Petri i punta, tavuli i cozzu, e fimmani curcate; Arberu ca stridi e fimmana c’arridi, pigghjia a gaccetta e tagghjia; Fimmana chi s’alliscia è gran puttana.
Una marcia in più
Sono anni che insegno a classi intere di studenti universitari, Antropologia Culturale ed Etnologia. Propongo loro il confronto col mondo, con le diversità culturali, con le differenze, con il nostro tempo pieno di contraddizioni ma anche ricco di vantaggi di conoscenza, di tante occasioni di autocoscienza e di libertà che la realtà ci mette davanti ogni giorno. Ne conosco a Catanzaro e Cosenza da tutta la regione, e ne ho laureati tanti di questi ragazzi e ragazze. Hanno alle spalle storie di periferie urbane abbandonate e di realtà sociali difficili, di comunità minuscole e in crisi spesso abbarbicate a tradizioni, a diffidenze difficili da infrangere.
Prevalentemente sono però figli di gente di paese e di paesini. L’istruzione è un salto, un balzo in avanti per tutti loro. Le differenze tra questi giovani però sono flagranti, soprattutto nel genere più che nella provenienza sociale. La femminilizzazione degli studi è un fatto per me ormai chiarissimo, inconfutabile. Sono loro, le ragazze, le studentesse le più brillanti. Largamente fuori media, rispetto ai più pigri e convenzionali colleghi dell’altro sesso. Studiano di più le ragazze, sono più intelligenti, sensibili, colte, curiose, positive, innamorate di conoscenza e affamate di futuro. E quelle che arrivano in coppia, ho notato, finiscono gli studi che il più delle volte lei guida lui.
Un nuovo spazio
Anche nei borghi trasecolati dalla povertà e dall’abbandono, dove ancora siedono le donne vecchie con i fazzoletti in testa, crescono così giovani donne istruite, colte, affamate di vita, di libertà, di desideri. Per loro adesso c’è uno spazio nuovo da conquistare in queste comunità, e c’è anche un altro tempo e un altro modo di vivere da reclamare. Accade ovunque, a Catanzaro come a Campana Calabra. Gli uomini, sì gli uomini, che se ne sentono minacciati, dovrebbero farne tesoro. La libertà più vera e una nuova coscienza delle comunità e delle relazioni passa anche da queste donne più libere delle loro nonne e madri.
Sono più consapevoli, più aperte, più libere. Meglio delle borghesucce del bovarismo che faceva mormorare il moralismo bacchettone della provincia e dei paesi di una volta. Meglio di quelle madonnette che crescevano educate alla musciarìa dei maschi fidanzati-in-casa, lasciate a languire nella noia del paese in attesa di essere offerte per sposare i bancari, i figli dei farmacisti “per bene”. Queste ragazze e donne calabresi di adesso, sono finalmente donne nuove (nuove, non senza difetti, ogni tempo, ogni società, genere e individuo, se ne trascina dietro tanti). Ma scegliere la libertà, saperla vivere e metterla in opera è, e sarà, la scelta radicale. Un bene individuale e sociale, sempre e per tutti.
Parola alle donne
Se ti metti in ascolto, comprendi che lo stato di salute di una società come quella calabrese, specie oggi in mezzo al caos della crisi pandemica che la rende più che mai fragile, pericolante e in regresso, non può che ripartire proprio dal femminile, dalle risorse del femminile. È così perché ogni comunità e ogni luogo della società se vuole davvero restare vivo e progettare futuro deve diventare un luogo che oggi parla di sé attraverso la vita e l’esperienza di rinnovamento delle donne. Solo se lascia parlare le donne e le rende protagoniste del cambiamento di tutta la società, la Calabria produrrà finalmente la sua trasformazione.
Le donne che ho incontrato e che racconto in tutti questi miei viaggi di scoperta in giro per la Calabria di adesso, io le porto con me. Sono amiche, alleate, compagne di vita, e hanno cambiato un po’ anche me. Certo, si sposano. Hanno figli che allevano, lavorano quando possono. Vivono e amano più liberamente. E quando decidono di liberarsi di amori sbagliati, da abusi o relazioni malate, lo fanno con maggiore risolutezza, con la dignità e il riguardo che si deve alla propria vita, a quella dei propri figli. Questo oggi per fortuna accade di più rispetto al passato.
I residui tossici del patriarcato
Molte di queste donne non possono ancora vivere da sole (mancano lavoro e sostegni, servizi essenziali), ma quando soffrono le compagnie oppressive di mariti e compagni, adesso se ne liberano.
Come dimostrano la recente vicenda del femminicidio di Fagnano Castello, le invettive sessiste rivolte alle colleghe da un consigliere comunale di Cirò, la medievale e avvilente “lista delle zoccole” diffusa a Cinquefrondi, 6500 abitanti nella Piana di Gioia Tauro, spesso accade che queste donne siano ospiti disprezzate a casa loro, stigmatizzate dal conformismo e dalla violenza paternalista che cova nelle famiglie, e che quasi sempre le mette ai margini delle comunità locali.
C’è una specie di bolo velenoso che risale a tratti dal ventre astioso della vecchia società dei paesi in crisi di identità, dove spesso resiste il residuo tossico del patriarcato più oscuro. Un resto di autoritarismo maschile accanto al quale crescono però nuove (e forse persino più pericolose) forme di violenza, di diffamazione e di odio sessista ai danni delle donne e dei fragili.
La retorica della restanza
Fenomeni che si muovono sulla rete e si diffondono in formato digitale via social, su Facebook o Whatsapp, nelle chat regno del machismo che animano i gruppi di balordi che avvelenano la scena sociale e incattiviscono la gracile vita di sponda dei paesi. I paesi, altro totem della retorica di ripiego sudista, con l’enfasi della restanza, l’elucubro virtuosistico e sin troppo presunto sulla buona società idealizzata delle piccole comunità, dei vicinati, delle tradizioni del pane e della sussistenza slow, sotto il quale spesso si nascondono invece comunità allo sbando, piccoli inferni che mescolano anomia sociale, prepotenze e controllo oppressivo. Laboratori di un degrado talvolta persino più feroce di quello urbano.
Certo, oggi anche nell’angustia dei paesini più tradizionalisti e retrogradi ci sono donne giovani e meno giovani che vanno in giro a cercare qualcuno, qualcosa di vivo, che hanno bisogno di sesso e di legami nuovi o di relazioni, anche se capita poi di sentirsene prigioniere, e per non rassegnarsi all’abitudine decidono di volerli rompere sfuggendo alle pretese di assoggettamento e controllo di un uomo. E poco importa se questo accade un anno o un attimo dopo il primo incontro, il primo giro in auto, il primo bacio di nascosto. La riprovazione pubblica, la maldicenza, l’insulto, cala come condanna nei confronti di donne considerate troppo disinvolte nei comportamenti sessuali o nel modo di vestire.
Stop ai pregiudizi
E allora? Sono donne che hanno bisogno di “paesaggi” sociali nuovi queste donne, di un nuovo appaesamento libero da ipoteche tradizionali e pregiudizi. Ma la rete dei consultori familiari, dei presìdi socio sanitari e dei centri antiviolenza è stata via via indebolita. E con questi le iniziative che potrebbero prevenire i delitti e contrastare, anche culturalmente, le violenze e le discriminazioni nei confronti delle donne. Oggi mancano spazi civili e comunità aperte in cui per le donne sia finalmente possibile scegliere, potersi raccogliere e ripartire, liberamente.
Eppure ogni loro scelta di libertà è un progresso, un diritto umano sacrosanto, non negoziabile, individuale e indisponibile ad altri che non siano le stesse donne. Per questo c’è anche bisogno di un po’ di racconto, di narrazioni minime rispettose, che ricreino solidarietà, pace, possibilità, allegria, proprio intorno alla difficile liberazione di queste donne, trasformando il silenzio ostile e la violenza dello stigma sessista e tradizionale, in uno spazio nuovo da abitare e condividere, in un dono di parole. La cronaca queste storie le scopre invece solo quando le protagoniste vengono offese e diventano vittime, uccise da uomini, familiari o compagni, che credono ancora che di una donna si possa essere padrone.
Il tema del femminile
Molto più di quanto so vedere e ascoltare, mi piacerebbe avere la capacità di saper far parlare le vite qualunque di queste ragazze, di queste giovani donne, ma anche di quelle che hanno perso il loro momento, che già si sentono fuori dal gioco della vita, perché in realtà ogni esistenza incontrata per questa via è particolare, e merita di essere illuminata prima di essere riassorbita dal vuoto. Le donne sono per me, sempre più spesso, l’ospite da interrogare tra un passaggio e l’altro, tra una rilettura e l’altra delle mie giornate per capire i luoghi e la società concreta e attuale di questa regione di confine.
I paesi e le città passano dai finestrini dell’auto, mentre il tema del femminile permane, continua a interrogarmi. La scrittura e il paesaggio della storia delle donne sono insieme un problema reale e un ecosistema simbolico, personale e collettivo. Le donne parlano sempre di ciò che condividiamo col mondo, e aprono a ciò che del mondo, e per ciascuno di noi, resta pur sempre diverso e qualche volta irreprensibile, estraneo.
Un enigma da decifrare
Le donne oggi portano lo stesso abito, si truccano e si muovono allo stesso modo, tutte, ovunque: città di provincia o quartiere periferico, paesino o sobborgo. Ma è ancora solo apparenza. Il vero sembiante deve ancora disegnarsi, e le mode c’entrano poco. Sono un geroglifico tutto da decifrare le donne della Calabria di oggi. Lo stesso enigma mi capita ancora di sfiorarlo nella Calabria più recondita, nei dintorni di Savelli, Cerenzia, Cicala, Paludi, oppure di Longobucco, Cropalati, Zagarise, Petronà, Carfizzi, in certi minuscoli paesini conficcati come un chiodo dentro la polpa verde e nei recessi più angusti e siderali del marchesato, del Pollino e della Sila Grande, Greca o Piccola. Le donne sono là, sono loro quelle che restano, e sono sempre la cosa più viva di tutto.
In posti così ci vado di tanto in tanto solo per verificare se le donne calabresi, le giovanissime o le vecchie, sanno come si fronteggia il tempo incerto di adesso. E se, oltrepassata la soglia di una certa indefinibile età, si somigliano tutte, o se piuttosto ricordano le donnine involgarite dal lusso delle griffe alla moda che escono nei sabato sera della città provinciale (che si autodefinisce “europea”) in cui abito ora. O se invece le donne sono quelle che masticano a denti stretti l’amaro fiele delle giornate vuote di senso che si consumano nei paesoni dai confini slabbrati, in mezzo ai casermoni che si spandono a macchia nella Calabria di questi anni di caos. Tante cose insieme, credo.
Tutti al funerale, ma prima?
Ieri ho preso l’auto e sono andato a vedere con i miei occhi a Fagnano cos’è il piccolo, sparuto, paese di 2000 abitanti sotto le pendici interne della catena costiera tirrenica. Il paesino dove è stato consumato nei giorni scorsi l’ultimo dei femminicidi calabresi di quest’anno. L’aspetto è la solita mescola disordinata di vecchio e di nuovo che si accavallano sottosopra, come nella fisionomia spaesata di quasi tutta la geografia antropica di questa Calabria del secolo XXI.
Era tutto molto triste a Fagnano. Tutto il paese chiuso, sbarrato per il lutto cittadino proclamato dalle autorità locali. Poca gente per strada, un’aria attonita e stranita. Soprattutto poche donne, poche giovani a far da corteo a questa tragedia. La chiesa era piena. Il manifesto con l’immagine colorata di Sonia Lattari, 43 anni, era dappertutto. Aveva subito percosse. Ma non aveva denunciato il marito che l’ha poi ammazzata a coltellate.
Sembrava davvero il funerale di tutto un paese. Ma quanto il paese di cui quella giovane donna è stata cittadina, lo stesso paese che la piangeva ora nella chiesa dell’Immacolata, era stato con lei solidale, attivo? Quali sostegni ha ricevuto Sonia da ambiente, famiglia, parrocchia, autorità? E chissà quali paure ha avuto Sonia prima che tutto accadesse. Sono andato via. La strada per uscire dal paese si dilegua per chilometri tra l’ombra brunastra e la luce cruda che svela i boschi di castagni che stanno per portare frutto ad un autunno fiacco e svogliato. Non mi è sembrato giusto fare neanche una foto.
La vera rivoluzione? Senza uomini
Non basta sapere che le imminenti elezioni regionali accompagneranno al voto i calabresi con la doppia preferenza di genere. È tempo anche in Calabria di nuove libertà e di reali equivalenze di genere. È tempo di una nuova autorità femminile al potere per il governo delle comunità. Che non è certo quella che ancora oggi imita e puntella il potere esausto e autocratico del patriarcato che domina la politica politicante. Gli uomini si mettano invece da parte per un po’, è meglio. Trovino un modo nuovo di vivere i sentimenti, gli affetti, la famiglia, il lavoro, la politica. Sarà un bene, per la vita di tutti, prima ancora che per la politica, l’economia, la cultura. Sarà questa la vera rivoluzione in Calabria.